Pusher – L’inizio
Appena apro gli occhi mi accorgo che sono davanti ad uno schermo nero. E che ci sono le facce di brutti ceffi e che io sono in mutande e sto sudando e che gli altoparlanti del mio computer emettono un insieme di rumori che mi piacciono e che fondamentalmente non so dove mi trovo, non so chi siano quelle persone che mi stanno sedute intorno, non so cosa sia quest’odore che pervade tutta la stanza, ma so che sto per cominciare a guardare un film che fin dalle prime inquadrature, fin dai primi raccordi, col suo montaggio terribilmente secco e chirurgico, risulta estremamente funzionale, quasi Refn (sì ormai lo conosce tutti Refn) fosse un autodidatta talentuoso in grado di riprendere il suo protagonista con una telecamera molto movimentata senza però ricadere nei paradigmi estetici di Dogma e Lars Von Trier (vi ricordo che ci troviamo nel 1996), così che l’impressione che mi suscita non è altro che quella di un realismo senza una forte posizione ideologica per quanto sia un film estremamente netto e sicuro di sé, tanto pulito quanto non appartenente a nessuna corrente o manifesto, aderente, mimetico e scorrevole, capace di descrivere in modo convincente la violenza che caratterizza un intero mondo, coi suoi personaggi goffi e sfortunati, aggressivi psicologicamente e/o fisicamente, un mondo freddo e incapace di costruire rapporti affettivi positivi neanche nei confronti di una prostituta la quale in definitiva si dimostra essere un raffinatissimo specchio in cui Frank (interpretato da, wow che attore Kim Bodnia, veramente spettacolare la sua metamorfosi da pusher amichevole a anti-eroe disperato e pronto a tutto), in cui Frank riflette la propria immagine stranamente non speculare, e questa dissimmetria della propria figura notomizza magistralmente le difficoltà di un bacio o di un abbraccio che trovano inizialmente sfogo nel simulacro di un peluche e in fine nel simulacro di una fuga che solo per l’atavica stupidità di una riconciliazione ideale non si può realizzare; e quel finale alla 400 colpi ha tutta una sua ironica potenza determinata da uno splendido montaggio alternato su più sequenze narrative che, appena arrivano i titoli di coda, vi farà balzare in piedi (almeno è quello che è successo a me) e vi farà gridare: CAZZO, CAZZO, CAZZO!
Pusher II – Sangue sulle mie mani
E poi parte la proiezione della storia del migliore amico di Frank (il protagonista del primo capitolo), un certo Tonny, interpretato da Mads Mikkelsen (un attore che è un capolavoro umano, è magistrale, incredibile, lo amo, giuro, lo amo, fa veramente spavento da quanto è bravo), che esce di prigione e, diciamocelo, non è proprio un tipo sveglio, con le sue cicatrici sul teschio e la parola RESPECT tatuata sulla nuca con un font gothic metal, e quella felpa che non si cambia mai, quel suo sguardo vuoto, perso, triste, quasi a sottolineare che Tonny vorrebbe semplicemente essere accettato nuovamente dalla sua famiglia e dai suoi amici, ce la mette tutta, almeno per quel che riguarda le sue possibilità caratteriali, emotive, intellettive, ma il Duca, che poi non sarebbe altro che suo padre, non gli dà nessuna possibilità, verrebbe quasi da piangere, ma non gli dà proprio nessuna possibilità che non sia mostruosa, nonostante, ancora una volta, non siano altro che l’uno il riflesso dell’altro in una struttura speculare che deve essere ribaltata per ottenere il tanto agognato climax e Refn (adesso siamo nel 2004) si prodiga nel mostrarci come la spirale negativa della vita si trasformi con un solo gesto impulsivo in una terribile metamorfosi angelicata attraverso la presa di coscienza (non tanto intellettiva, quanto emotiva) della tristezza del mondo in cui Tonny si trova ad abitare, coi suoi amici dai discutibili valori morali e quella brutta bestia di suo padre e quella puttana tossica che lo ricatta con un figlio che forse è suo, cioè che sicuramente è suo mentre l’unico amico che è rimasto a Tonny si limita a fare una risata dal bancone del bar o a chiudere gli occhi del fratellastro di Tonny in quello che per Refn è un passaggio di registro dalla dimensione oggettiva dei fatti a quella soggettiva dell’esperienza del protagonista grazie ad uno spettacolare gioco di volumi chirurgicamente eseguito sulla colonna sonora durante un matrimonio (una sequenza narrativa che rimarrà nella storia del cinema) dove si può assistere ad uno strip tanto brutale quanto sublime, in quella che alcuni definirebbero raffinatissima poesia o inutile crudeltà, per precipitare sempre più giù fino al finale al contempo edipico e anti-edipico dove non sai se esultare o piangere.
Pusher III – L’angelo della morte
E poi arriva la fine e ormai scopri di essere diventato un tossicomane di una droga chiamata Trilogia Pusher, così l’identificazione con Zlatko Buric nella parte di Milo è facile facile, dato che il capo pusher di tutta la saga si reca di nascosto in un gruppo di T.A. (Tossicomani Anonimi) proprio mentre cerca di spacciare metilenediossimetanfetamina, e la cosa bella è che non c’è nessuna contraddizione tra il suo tentativo di diventare una persona migliore e il modo in cui si procaccia i soldi per mantenere la famiglia, nessuna contraddizione e poco importa se non si capisce nulla, perché il problema in definitiva non consiste tanto nel vendere un prodotto o nell’essere simpatici, ma nel far capire la confusione che c’è nella testa dei personaggi, così che quando i miei occhi arrivano al momento in cui due cadaveri devono essere fatti a pezzi, mi diventa chiaro che c’è del marcio in Danimarca, che Refn nel 2005 è riuscito a dichiararlo in modo inequivocabile, soprattutto se alla fine scopri che mentre albeggia puoi osservare il nulla che sei davanti ad una piscina vuota, anche se sei tutto sudato e in mutande, e che finalmente hai scoperto dove ti trovi e chi sono le persone intorno a te e da dove viene quell’odore dolciastro che hai sentito dall’inizio.
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