di Andrea Caciagli
Al Tibur, il cinema all’angolo della piazzetta di San Lorenzo a Roma, danno Tre manifesti a Ebbing, Missouri di Martin McDonagh. Vado a vederlo senza aver visto il trailer, soltanto i manifesti. Così, per coerenza. È una domenica sera e fuori dal cinema c’è la coda, una coda che in un cinema cittadino non vedevo da tanto. Non faccio in tempo a gioire per questo evento straordinario quando mi rendo conto che la coda si porta dietro un elemento che al cinema sotto sotto non vorrei proprio: le persone. Io al cinema ci vado di pomeriggio, spesso da solo, e sono quello che mentre voi chiacchierate con gli amici si gira e vi dice di stare zitti, anche se siamo all’Uci Cinemas e mancano novantacinque minuti all’inizio del film. Sarà che al cinema mi piacciono la solitudine e il silenzio, sarà che la prima volta che ci sono andato in gruppo sono finito in prima fila a vedere Saw – L’enigmista e quel seghetto metallico ancora non l’ho dimenticato.
Quando mi siedo in sala, insomma, è pieno di gente. Per distrarmi dal brusio faccio una foto alle poltrone stracolme, pronto a postarla per fare polemica con una prima pagina de La Stampa uscita qualche giorno prima, che come argomentazione sulla crisi del cinema riportava una foto di un’altra sala romana con a sedere una decina di spettatori descrivendola come “semideserta” – una foto sicuramente scattata un giorno a caso, tipo un lunedì pomeriggio, quando al cinema non si manifestano neanche gli spacciatori di popper. Non la posto subito ed è un errore, visto che il giorno dopo mi ruberanno il cellulare sul 492 in direzione Cipro, ma questa è un’altra storia. La foto con lo smartphone mi occupa un paio di minuti, giusto il tempo necessario perché il me di qualche fila indietro mi noti e commenti con un “guarda quel cretino che fa le foto col cellulare”, ma poi sono punto e daccapo. Oltre al brusio adesso c’è anche un fascio di luce che mi arriva dritto in faccia, dalla mia destra: siamo a un minuto dall’inizio del film e la maschera si è dimenticata di tirare la tenda. Attimi di panico finché l’anziano signore seduto accanto a me si alza, lento e inesorabile come sono gli eroi, e va a chiuderla. Quando si volta vedo i suoi occhiali spessi, il maglione nero con fantasia tartan, il suo volto che si contrae innaturalmente, per degli spasmi muscolari che non può controllare. I nostri sguardi si incrociano e gli esprimo la mia profonda gratitudine con un sorriso, in silenzio. Mi si siede accanto, tra me e sua moglie, e il film comincia.
Raped while dying. And still no arrests. How come, chief Willoughby? I lineamenti duri di Frances McDormand dominano la scena. È Mildred Hayes, madre, un volto scavato dal dolore per la perdita violenta della figlia scomparsa sette mesi prima. Il suo dolore non è l’unico, a Ebbing, l’intera cittadina ne è intrisa, e i suoi abitanti sono tracciati da cicatrici invisibili. Molto presto nel film scopriamo che uno dei protagonisti – lo sceriffo Willoughby interpretato da Woody Harrelson – ha il cancro. Niente di nuovo, niente di particolare. Se non fosse che McDonagh decide di mettere in scena la malattia senza drammatizzarla, anzi col suo sguardo la stempera, l’esorcizza con l’ironia rendendola quindi più umana, più vicina a noi. Questo meccanismo fa ancora più male della drammatizzazione del dolore, perché non lo enfatizza ma lo spinge giù, lo soffoca e lo comprime come una pietra nel petto. Una pietra che è entrata senza penetrare la carne – come farebbe la lama di un coltello o la punta di una pallottola. Quella pietra, semplicemente, è lì. E anche senza il taglio ha lasciato comunque una cicatrice.
Mentre penso a tutto questo sento dei sospiri soffocati, alla mia destra. È l’anziano signore, ma stavolta i suoi non sono spasmi muscolari. Piange. Sullo schermo è appena passata la scena di un interrogatorio: lo sceriffo Willoughby è in centrale con Mildred Hayes e i due hanno uno scontro verbale. Improvvisamente lo sceriffo tossisce sangue e subito Mildred si alza e va a chiamare aiuto, mettendo da parte qualunque rivalità. Riguardo il volto dell’anziano signore, ha gli occhi umidi. Non c’è dubbio che stia piangendo per quello che è accaduto sullo schermo. Non per empatia, per memoria. Ha perso una persona cara?, mi chiedo. È malato lui stesso? Smetto di guardare il film, lo ascolto soltanto mentre con la coda dell’occhio osservo alla mia destra. Ha visto anche lui una persona sputare sangue? Lo sceriffo Willoughby viene portato via in ambulanza. La moglie gli fa visita. Sono minuti infiniti. L’anziano signore non stacca gli occhi umidi dallo schermo, io non li stacco da lui. Una pietra nel suo petto, una nel mio. Mildred è in cucina a fare colazione con suo figlio, gli tira dei cereali in faccia che gli rimangono attaccati. Il figlio la fissa. “Vecchia troia”. “Non sono vecchia”. Ridono. Ridiamo. Il film finisce, il signore è l’ultimo ad andarsene insieme alla moglie. La sua cicatrice se ne va con lui.
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