Sono andata a vedere il nuovo film di Asghar Farhadi, che ha vinto molti premi a Cannes. Il nuovo film di Asghar Farhadi si chiama The Salesman, perché è in qualche modo ispirato a Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller. Durante il film, i personaggi partecipano a un gruppo di teatro che mette in scena esattamente questo spettacolo, e litigano e sbagliano le battute e passano molto tempo a truccarsi. Il protagonista del film interpreta anche il protagonista dello spettacolo, e lo stesso succede con la protagonista. Morte di un commesso viaggiatore parla del sogno americano, del posto fisso, delle famiglie che non funzionano mai e poi alla fine lui muore. Il nuovo film di Asghar Farhadi parla delle tensioni tra le persone, di un’aggressione che forse c’è stata e forse no, dell’Iran e poi alla fine qualcuno muore. Io non l’ho capito bene cosa c’entri Arthur Miller con il nuovo film di Asghar Farhadi, cioè dove sia il richiamo effettivo, quello che ti fa riprendere addirittura il titolo, ma forse è perché sono una spettatrice disattenta, non del tutto capace di cogliere riferimenti complessi.
Sono andata a vedere il nuovo film di Asghar Farhadi, in cui a un certo punto si accenna al fatto che quando una donna è “di molte conoscenze”, per così dire, le persone tendono a pensare che se uno poi le entra in casa e le rompe la testa se la sia anche un po’ cercata. Si vedono i vicini della protagonista – che in realtà di conoscenze ne ha abbastanza poche, ma il tipo che le è entrato in casa rompendole la testa non lo sapeva – una coppia di anziani premurosi che l’aiutano a spostare la macchina, si offrono di testimoniare in caso sia necessario e di non toccare le macchie di sangue sulle scale anche se fanno un po’schifo, per non inquinare le prove, ma si capisce che se al posto della giovane sposina ci fosse qualcun altra, forse non sarebbero così carini. In realtà, si capisce che un po’ tutti la vedono in questa maniera, ed è affascinante intuire come diventi più difficile allora orientarsi secondo parametri di “buoni” e “cattivi” o anche solo identificare i personaggi simpatici. Però, poi, il nuovo film di Asghar Farhadi di aver tirato in ballo questa cosa semplicemente se ne dimentica, e la lascia lì. Lascia lì i vicini, lascia lì il padrone di casa che non ha avvertito i nuovi affittuari di averli sistemati nell’ex appartamento di una signorina socievole, lascia lì anche la signorina socievole, e non se ne parla più. Ma forse anche qui è una questione mia, questa necessità di concludere il discorso, il non essere del tutto avvezza all’implicito.
Sono andata a vedere il nuovo film di Asghar Farhadi, in cui Asghar Farhadi fa questa cosa che così bene sa fare quasi solo lui, e cioè farti evolvere i personaggi così fluidamente sotto gli occhi che a un certo punto pensavi di avere l’andamento della storia tutto ben chiaro e invece no, lui ti rigira come gli va e tu non puoi farci niente. Ci sono una vittima, un eroe e un antagonista che si scambiano i ruoli così magicamente da lasciare una specie di vertigine, quella sensazione di quando pensavi che aprendo la porta avresti trovato il bagno, e invece sei in pigiama sul pianerottolo. C’è questo senso del quotidiano, della banalità, della vita di ogni giorno che si porta dietro inquietudini e macchie che quasi non riusciamo a distinguere finché non ci hanno inglobati. C’è il male e c’è il non voler cedere al male e c’è il desiderio di sguazzarci. C’è l’epica dei grandi poemi e l’orrore di vivere, nel nuovo film di Asghar Farhadi. Però poi un po’ tutto si perde, e la magia semplicemente non c’è più. Saranno i tempi così dilatati, sarà che c’è sempre qualche dettaglio di troppo che fa saltare il trucco e all’improvviso svela l’artificio, sarà che – come diceva il padre di un mio amico mentre abbondava con la salsa barbecue – quando sul fuoco hai troppe bistecche finirai per forza per bruciarne qualcuna. Ma probabilmente Asghar Farhadi neanche le mangia le bistecche, e il padre del mio amico avrebbe fatto meglio a chiacchierare di meno.
Sono andata a vedere il nuovo film di Asghar Farhadi, che inizia con uno dei più bei piani sequenza di sempre. Un palazzo sta per crollare, le persone corrono per le scale cercando di mettersi in salvo. Un uomo sveglia una donna e le dice di far presto. Lei esce dalla stanza da letto, si copre i capelli con una sciarpa, sembra non aver bene idea di quel che sta succedendo. Una madre non riesce a far uscire il figlio ritardato dal letto e qualcuno deve aiutarla sollevandolo e portandolo via di peso. Ci si chiama da un lato all’altro del cortile, le porte rimangono aperte, e c’è molta paura ma anche molta compostezza. Nessuno grida, nessuno corre sguaiatamente. Nell’universo umano del palazzo esistono solo figure archetipiche: il marito, la moglie, la madre, il figlio, il vecchio. Le pareti vibrano, le persone scompaiono, non si sentono più quasi nemmeno le voci, restiamo solo noi. Allora torniamo indietro, nell’appartamento della coppia, e ci avviciniamo a una finestra. Di colpo, il vetro si incrina. Fuori è buio, e arriva fortissimo un suono meccanico e spaventoso. Mentre il vetro continua a spaccarsi, facciamo appena in tempo a sporgerci in avanti per vedere un’enorme scavatrice ruggire al muro portante.
Il nuovo film di Asghar Farhadi avrebbe potuto essere tutto qui, un piano sequenza e il suono di quel vetro rotto, e se li sarebbe meritati lo stesso quei premi a Cannes. Ma davvero non so perché, si fanno film di più di due ore quando tutto quello che c’è da dire è già stato detto in meno di due minuti.
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