di M.R.
Stamattina sono uscito presto di casa. Avevo un appuntamento all’ora di pranzo e un articolo da consegnare. Non avevo però nessuna voglia di stare chiuso in camera o in salotto. Odio scrivere a casa perché non riesco a concentrarmi e mi innervosisco subito. Non riesco a stare tranquillo, danneggio me stesso e gli altri che mi circondano, come il fumo. La distrazione è un vizio e per smettere non basta la forza di volontà (comunque scarsa): ci vuole un’imposizione esterna. Per questo vado sempre in biblioteca, quando posso. Oggi però è domenica e la biblioteca era chiusa, così sono andato al bar.
Non mi piace neanche andare al bar, di solito: nei bar ci si va per vedere gli amici, o le partite. Ma i miei amici a casa ci stanno bene, anche troppo. E lo sport non mi è mai piaciuto un granché.
Nei bar ci si va per fare incontri, magari di quelli che ti cambiano la vita, tipo l’anima gemella o l’imprenditore che ti propone il lavoro dei tuoi sogni.
Nei bar ci si va per incontrare degli sconosciuti, perché ci si sente soli e si pensa che abbiano la risposta ai nostri problemi.
Ma io non volevo incontrare nessuno, solo uno spazio per scrivere, non importava neanche che ci fosse silenzio assoluto. E infatti non l’ho trovato, visto che, all’altro lato dello stanzone dove mi ero rifugiato, c’era un gruppo di pensionati con le loro briscole e le loro bestemmie.
La compagnia però non mi è risultata fastidiosa. Anche perché io ero lì che bestemmiavo come loro, chino sul quaderno, intento a trovare l’attacco giusto per il pezzo. Sentivo una certa affinità: i motivi erano differenti, ma sia io che loro ci accanivamo contro la divinità, anche se non ce l’avevamo con essa nello specifico. Ci sembrava solo un ottimo modo per sfogare la frustrazione, un retaggio dell’ambiente, qualcosa che ormai ci aveva permeato; sembrava non conoscessimo altro modo di esprimerci, di esorcizzare la rabbia, la frustrazione e il dolore, la monotonia della vita.
E lì mi sono ricordato che tante volte la gente mi ha chiesto “Perché bestemmi se non credi?” e non ho mai trovato una risposta che mi soddisfacesse fino in fondo. Potevo citare, a scopo ironico, le battute famose come “io non bestemmio, sprono Dio a fare di meglio” o, negli ultimi tempi, perfino le frasi del Papa “anche arrabbiarsi con Dio è pregare”. Ma non erano cose che sentivo mie fino in fondo, non mi ci riconoscevo del tutto. Bestemmiavo perché mi veniva naturale, perché avevo sentito spesso così (ma gli esempi contrari non erano pochi) e perché, pur conoscendo le alternative (potrei fare una lunga lista delle imprecazioni non a sfondo religioso che conosco) non le avevo mai seriamente considerate.
Ma questo vale anche per la scrittura. Se qualcuno mi chiedesse “perché scrivi?”, non saprei dare una risposta precisa. Anche qui potrei fare numerose citazioni sull’argomento, ma il motivo principale rimane implicito nell’azione: scrivo per scrivere.
E se, mentre sono seduto qui al tavolo del bar, facessi uno di quegli incontri particolari per cui la gente va nei bar, l’incontro con qualcuno che sembra avere una possibilità per me, ma che mi chiede in cambio di impegnarmi a fare qualcosa, se incontrassi una persona così, gli chiederei di poter scrivere tutti i giorni, di aiutarmi a concentrare, a trovare la costanza con le parole. Sentendosi chiedere questa cosa, probabilmente sarebbe un po’ interdetto; so già la risposta che mi darebbe: “Se vuoi scrivere, devi scrivere, che altro c’è da dire?” e io non potrei dargli torto, anzi, ci farei un po’ la figura dell’idiota.
Per fortuna però non viene nessuno, e dopo un po’ arriva l’ora di pranzo: ho bestemmiato e scritto, mi chiedo se la mia vita sia cambiata
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