Si parla con sempre maggiore e giustificata insistenza dell’ultimo lavoro di Robert Eggers The Northman, terminato di girare in questi giorni dicembrini in Irlanda dopo un blocco causa Covid e una quarantena a Belfast. Si parla del terrore infuso in Nicole Kidman, della ricomparsa sul grande schermo di Björk, di Bill Skarsgård (IT) che non è riuscito a incastrare il film fra i suoi impegni, perdendo così l’opportunità di recitare insieme a suo fratello Alexander. Si parla della collaborazione col poeta islandese Sjón, scrittore di rune per noi incomprensibili, suoni che discendono rotolando dalla lingua norrena:
sólhvörf
þegar augu þín
nema staðar við kúluna
sem hangir á þriðju grein frá stjörnu
þá manstu afhverju dimmdi og athverju birtir á ný
jörðin hallast í sætinu (eins og hjartað)
og þannig ferð ast hún eftir sporbraut
teiknaðri í myrkrið
ófægð perla í himinsvörtum lófa
flöktandi sólarlogi
þá manstu
að sjálf ertu ljósberi
sem þiggur ljóma sinn af öðrum
La storia di The Northman si ispirerebbe alla leggenda vichinga di Amleth, predecessore del personaggio shakespeariano Hamlet (un salto mortale all’indietro della lettera h), che pure fu scritta in norreno: la parola amlóði – il folle, l’imbroglione ma anche il prestigiatore, il toccato da Dio – compare già nei poemi dell’Edda più o meno cento anni prima che Dante cantasse delle medesime infernali questioni.
“Un padre violò le leggi della morte per istruire il proprio figlio; lo visita in un sogno e gli racconta le cose dell’eternità […] Uccelli neri di fumo, ch’erano altrettante anime, si ravvolgevano come una nube di moscerini all’entrata dell’abisso. Le donne impudiche strascinavano piangendo macigni insanguinati”. (Sólarljóð, 63, 64, Anonimo, 1200 circa)
Il film offrirà “un’inconsueta violenza” e la cosa non stupisce. Due pellicole sfrontate e violente sono bastate a questo regista dell’83 per essere considerato tra i migliori della sua generazione.
Cresciuto in un paese di poco più di 4000 anime (Lee, New Hampshire, dove nel 1690 furono uccisi 18 americani e molti – sic – indiani nella battaglia di Exeter), Robert Eggers ha iniziato nel 2007 col corto Hansel and Gretel, passaggio volutamente anfibio dal teatro, brodo primordiale in cui è nato, alla terraferma del cinema.
Quindi, dopo un adattamento di Edgar Allan Poe (che non sono riuscito a trovare), si è fermato per sette anni facendo uscire finalmente Brothers nel 2015, corto visibile su Vimeo, frutto già maturo e personale che esplora il rapporto fra due fratelli fino alle sue estreme conseguenze.
Ma è con il lungometraggio The VVitch che fa parlare ovunque di sé. Anya Taylor-Joy, la futura regina degli scacchi (qui al suo primo film di peso, come Eggers), è Thomasin, figlia di un predicatore estremista nel New England del diciassettesimo secolo. Quando il neonato fratellino le viene rapito sotto il naso (una strega nel bosco ne farà unguenti), ecco che comincia l’inesorabile sprofondamento nella parte oscura, con una costruzione scenografica e fotografica incredibile e dettagliatissima.
Robert: «What’s going on there is another thing that you see in some English texts, but which is more common on the continent: the idea that a witch couldn’t just hop on her stick and fly, but instead she needed an unguent, an ointment, to help her fly. I think even some modern witches today [balbettando appena] make flying ointments, and they have potentially hallucinogenic properties, which induce a state that makes it seem like you’re flying.»
Durante le riprese di questo horror capace di rimodulare e fare propri tutti i cliché del genere, il fratello di Robert, Max, se ne uscì con una storia di fantasmi ambientata in un faro.
L’idea diventerà l’ipnotico e bellissimo The Lighthouse, con Robert Pattinson (che per quanto mi riguarda potrebbe chiudere la carriera qui, avesse fatto anche solo questo e Good Time) e Willem Dafoe, entrambi parlando l’inglese ottocentesco di Melville.
“It will be a strange sort of book, tho’, I fear; blubber is blubber you know; tho’ you may get oil out of it, the poetry runs as hard as sap from a frozen maple tree.” (Lettera a Richard Henry Dana jr, Herman Melville, parlando di Moby Dick, 1 maggio 1850)
Cos’è che ossessiona i guardiani nella luce del faro? Cos’è che dà quella gioia estatica, quel matto sognare?
In mezzo, lasciato in attesa, c’è un reboot di Nosferatu (che Eggers ha già fatto a teatro) e una miniserie su Rasputin in lavorazione (!), c’è la modestia come tratto distintivo e l’ammirazione per Bergman e Tarkovskij – Andrei Rublev su tutti, ma i suoi gusti in quanto a cinema sono incredibilmente vasti.
Robert: «I already mentioned Mary Poppins and I still love it. But maybe that’s expected. She’s a witch.»
C’è il parco a tema “coloni puritani” di Plimoth, ci sono una foresta e un oceano – quelli della sua infanzia – meglio se di notte.
Ci sono predicatori e guardiani del faro, lepri, caproni e gabbiani, pini bianchi e sirene, preghiere inginocchiate e bestemmie ubriache.
È una strada cupa e nera quella che percorre in solitaria Robert Eggers. Due volte va percorsa: una per l’ignoto e la paura, una per la comprensione. Del resto si sa, più cupa e nera è la notte, meglio si vedono le stelle.
Solstizio
Quando i tuoi occhi
si fermano sulla palla
che pende sul terzo ramo da una stella
ricorda perché è diventato buio
E perché sta tornando luce
la terra, come il cuore, si adagia nella sua sede
e come quello percorre un’orbita
disegnata nel buio
perla grezza nel palmo cielo-nero
sfarfallio fiammeggiante del sole
ricorda
che sei tu stesso un portatore di luce
ricevendo splendore dagli altri
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