The Assassin (2015) è l’ultima opera di Hou Hsiao-Hsien, uno dei grandi maestri del cinema contemporaneo. Taiwanese, presenza fissa dei festival europei e vincitore di un leone d’oro alla fine degli anni Ottanta con Città dolente, Hou non ha mai avuto molta fortuna con la distribuzione italiana.
In attesa che The Assassin arrivi sui nostri schermi (gira voce che esca a luglio), qualche pensiero su un film sconvolgente per perfezione estetica, profondità psicologica e fermezza politica.
The Assassin è un wuxia, quel che si potrebbe definire un film «di cappa e spada» cinese. Il genere ha una storia antica e al cinema ha raggiunto vette di splendore tra gli anni Sessanta e Settanta con King Hu (Dragon Inn, 1967; A Touch of Zen, 1971). Il pubblico occidentale l’ha scoperto circa 15 anni fa, coi trionfi commerciali de La tigre e il dragone, Hero, La foresta dei pugnali volanti ecc.
Nel nostro caso, la pellicola è ambientata nella Cina dell’VIII secolo, ai tempi della dinastia Tang. La protagonista è Nie Yinniang, una giovane assassina cui viene assegnato l’incaricato di uccidere quello che anni prima era stato il suo promesso sposo: Tian Ji’an, governatore della provincia ribelle di Weibo.
Le caratteristiche del film che colpiscono nell’immediato sono due: la magnificenza visiva e l’incomprensibilità della trama.
Affiancato dal fidato collaboratore Mark Lee Ping Bin, Hou gira con lunghissimi piani sequenza, nei quali la macchina da presa si muove lentissima, avvolgente, sinuosa – tende di seta che volteggiano nella brezza della sera, attraverso cui seguiamo gli sguardi dell’assassina; albe glaciali e silenziose; interni caldissimi e sontuosi; i suoni di un omicidio sovrastati dallo stormire del vento; la cima di una montagna scoscesa che viene coperta progressivamente dalle nuvole; le perfette architetture di templi e pagode immerse nella notte e rischiarate dalle luce delle torce; una ricchezza cromatica che toglie il fiato.
A una prima visione, la trama sembra impenetrabile. Col suo consueto stile, così naturalista da apparire anti-narrativo, Hou non introduce i personaggi ma ci porta direttamente nel cuore dei loro dialoghi e delle loro azioni: quanto ci sembrerebbe assurdo, nella vita vera, introdurci con nome-cognome-psicologia-background ogni volta che “entriamo in scena”, affinché un potenziale spettatore possa facilmente inquadrarci? E dunque distinguere i personaggi appare complesso, comprendere le loro relazioni ancor più, intuire le loro motivazioni o gli intrighi che li muovono quasi impossibile.
Per queste ragioni, inevitabile sembra il facile giudizio: «un film visivamente superbo», si dirà, «ma difficile da seguire, semi-incomprensibile nella trama, inutilmente noioso e intricato; in sostanza, un puro esercizio di stile».
Se la perfezione estetica non risultasse motivo sufficiente per sancire il valore assoluto dell’opera, provo allora a suggerire qualche spunto sul perché personalmente reputi il film importante e incredibilmente profondo anche per altre ragioni.
Sono infatti convinto che il mistero e la complessità dell’opera non siano da ricercare nella trama particolarmente intricata o nella narrazione ellittica (un puzzle ricostruibile a posteriori), quanto nella pluralità di livelli interpretativi cui il film si presta. Sotto la superficie impenetrabile del «bello e incomprensibile», un universo di contenuti.
Innanzitutto The Assassin è un film di genere che rivoluziona alla radice le convenzioni del genere stesso, e che suona come un caloroso vaffanculo ai wuxia sino-hollywoodiani – le scene di azione sono ridotte al minimo; i combattimenti non hanno quasi mai una vera e propria risoluzione; le coreografie sono naturalistiche; i movimenti (sia dei personaggi che della macchina da presa) sono lentissimi, prosciugati; la trama sembra tutt’altro che l’elemento centrale della pellicola; le baracconate fracassone e massimaliste tipiche del wuxia contemporaneo sono rovesciate in un minimalismo poetico e pudico.
In secondo luogo, il film è una profonda riflessione sui temi dell’esilio e dello sradicamento, che rappresentano il cuore della filmografia di Hou; tradita dalla principessa, abbandonata dalla famiglia, esiliata e trasformata in una macchina di morte, manipolata dalla sacerdotessa che l’ha cresciuta, la protagonista Nie Yinniang è radicalmente sola, senza patria, estranea alla propria famiglia, condannata a uccidere l’uomo che ama o ha amato – la storia del suo esilio è una storia di lacrime silenziose. Se in passato Hou si è concentrato sulla persecuzione, l’esilio e la fuga di famiglie e comunità cinesi a Taiwan, eccolo trasporre i temi a lui più cari in un (apparentemente innocuo) contesto storico-fantastico.
Da questo punto di vista, il film si configura quindi anche come potente metafora politica, che riflette sulle (insanabili?) fratture tra la piccola Taiwan (la provincia ribelle di Weibo) e la grande Cina (la corte imperiale), la cui lunga e minacciosa ombra sembra mettere a rischio l’indipendenza di tutto quanto la circonda.
Infine sono profondamente convinto che il film rappresenti un’autobiografia sotto mentite spoglie: Hou, nato come regista di film/omicidi su commissione, si è reinventato negli anni grande autore, conquistando faticosamente autonomia estetica e produttiva. Quale modo migliore per raccontare di sé, per questo piccolo e schivo ometto cinese, che immedesimarsi nella figura di un’assassina silenziosa, solitaria, che costruisce passo dopo passo il proprio percorso di indipendenza?
INSERITO DA TANDOORI IN-VECE DI M.I.G.L.I.O.
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