È andata più o meno come tutte le volte che piove e tutti decidono di utilizzare l’automobile come ombrello. Si sta comodi, avvolti dal caldo del climatizzatore, cullati dal tergicristallo che fa avanti e indietro quale unico suono in un ambiente ovattato che ci protegge dall’inferno di clacson sgasati e bestemmie che infuria sotto la tormenta e si estende per chilometri e chilometri, tra auto incolonnate e strade intasate come arterie ostruite dal colesterolo. Per fare un breve tragitto, il cui tempo di percorrenza stimato nei giorni di quiete è circa quindici minuti, si impiega un tempo indefinito tra le quattro ore e la vecchiaia.
Date le premesse, la nostra destinazione ci è subito parsa irraggiungibile entro l’orario stabilito. Un punto ignoto oltre la scogliera di fari rossi che ci precede e l’onda di fari gialli pronta a riversare su di noi tutta l’impazienza che quell’ingorgo ha da offrire. Perciò, prima di farci contagiare dalla rabbia serpeggiante e scendere dall’auto per menare col crick l’ennesimo furbetto del traffico, facciamo inversione e scorriamo rapidi in direzione opposta.
Come alternativa propongo di andare a sentire un reading in centro, ma mi fanno notare che il centro è zona rossa. Invalicabile. Inespugnabile. Per entrare o uscire ci si può dotare o di santa pazienza o di un Hummer corazzato con cui scavalcare il cordone di automobili che fa muro lungo i viali. Solo i quartieri limitrofi sono accessibili.
Decidiamo quindi di rifugiarci in un cinema di catena moderno e scintillante, dotato di ampio parcheggio e ottimi sconti per gli studenti. Scegliamo uno dei due film italiani in programmazione. La cassiera ci chiede se desideriamo la poltrona VIP, la quale, ci dice, oltre ad essere posizionata alla giusta altezza per lo schermo (né troppo in basso né troppo in alto), è più “comoda” delle classiche poltrone ed è in grado di offrire “un’esperienza di suono migliore”. Dice proprio così, ma anche lei sembra scettica a riguardo, così prendiamo tre posti normali nella fila sotto per scoprire che anche lì si sente benissimo.
Il film inizia dopo trenta minuti di pubblicità. È un film che si rifà alla vena mai esaurita della commedia italiana per raccontare lo sfacelo della generazione precaria, in particolare quella di un gruppo di ricercatori brillanti messi alla porta da un sistema universitario “troppo italiano”. Non è un tema nuovo, ma il modo in cui lo racconta non è poi “troppo italiano”, e questo è bello. Inoltre, c’è il valore affettivo: è infatti il terzo e ultimo capitolo di una fortunata trilogia. Ma «Anche Star Wars era una trilogia», mi ricorda uno degli amici con me in sala. E questo mi spaventa, visti i tempi.
Intanto fuori ha smesso di piovere e il cielo si è fatto terso. La città sullo sfondo sembra essersi privata del trasporto di odio su gomma e l’aria si è distesa. Finito il film, decidiamo di rientrare a casa.
Mentre ci incamminiamo, immagino l’inquadratura allargarsi e un campo lungo accompagnarci verso l’uscita. Una voce fuori campo fa irruzione per porre quesiti irrisolti: tipo perché a trent’anni mi ritrovo ancora a poter far affidamento sul ridotto studenti, o perché ci sia ben poco da ridere quando i colloqui dell’antropologo Arturo non ricadono più tra i fatti eccezionali. Insomma, alla fine è anche un bene, se non pure doveroso, riderci sopra e pensare, in fondo in fondo, che tutto ciò non riguarda noi ma solo il sistema che ci ospita, di cui noi facciamo parte ma solo di sfuggita, per sentito dire, perché ci hanno insegnato ad astrarci da tutta la drammaticità che ci circonda facendoci credere di essere dei giovani brillanti ma in fondo un po’ sfigati. Che è più o meno quello che pensiamo ogni volta che piove e decidiamo di prendere la macchina, salvo poi ritrovarci tutti incastrati e arrabbiati, impossibilitati a raggiungere le nostre mete. E la colpa è sempre di quello che sta nella corsia di fianco.
di Salvatore Cherchi
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