Sostiene Giulia che al liceo i nostri compagni guidassero le macchinine.
Dice liceo, Giulia, intendendo quell’istituto scolastico, un tempo potremmo dire rinomato e adesso non saprei, forse non più tanto, che abbiamo frequentato entrambe senza mai incontrarci o anzi, incontrandoci anche varie volte, ma sempre evitando la pratica degradante del salutarsi tra annate differenti.
‘84, ‘85, in pratica un abisso.
Le macchinine, invece, sono quelle del genere Smart senza essere tuttavia Smart davvero – senza prendersi, per così dire, neanche questa responsabilità (ovvero incarnare il principio stesso di automobile ridicola per fighetti) e preferendo afferire alla categoria dei veicoli microscopici senza nome – oggetti indegni dalla consistenza di lattine, apparecchi di morte che si regalano ai vecchi sperando di sbarazzarsene in incidenti orribili e che secondo Giulia sono invece tutt’altra cosa: mezzi di trasporto forse non ultra brandizzati ma in ogni caso portatori di status. Uno status, dice lei, che in definitiva è quello di una persona priva di peli sotto le ascelle eppure già pronta a ereditare un numero X di proprietà immobiliari, iscriversi a una costosa università privata (area marketing) e fondare una startup nel settore del vino che non andrà mai in attivo ma chi se ne frega.
Si chiede, Giulia, come è possibile che non ricordi le macchinine, dato che erano letteralmente dappertutto.
Mi domanda dove mi trovassi, con esattezza, per cinque anni di seguito, quando tutti uscivano dalle micro portiere dei loro micro mezzi per entrare a scuola o viceversa, e io rispondo che ero proprio lì, sul marciapiede lurido in via della Colonna a sentirmi male per i cicchini fumati, troppi o troppo in fretta, e che di macchinine ne avrò viste al massimo tre ed erano certo di gente esterna, dei fidanzati universitari di tizie ricche e improbabili che all’epoca non frequentavo e che nessuno sano di mente avrebbe dovuto frequentare a quell’età.
Spiego a Giulia, che sta armeggiando con Netflix, come il telefilm per adolescenti senza dubbio ben scritto e osannato da tutti che stiamo fruendo in sessioni militaresche da sette ore a botta non abbia niente a che vedere con la realtà, e che anche tralasciando il fatto delle macchinine è proprio 100% impossibile, a sedici anni, avere capelli costantemente puliti o vestiti non dico decenti, ma giusto un filo sopra l’asticella dell’imbarazzo, mentre qui i protagonisti hanno la pelle così fresca che potresti sbucciarla, e se li osservi bene ti accorgi che somigliano tutti a qualche attore famoso.
Giulia mi guarda, e so che non è più sicura di conoscermi.
So che mentre sbocconcella il dessert, pochissimo per volta, sta valutando il modo più indolore di comunicarmi che in realtà lei al liceo i capelli li lavava continuamente, e che non emanava affatto odori immondi come me e quei selvaggi dei miei conoscenti, che poi ero convinta fossero anche i suoi ma devo essermi sbagliata. Vuole dirmi, questo è certo, che se mia madre concedeva una o al massimo due docce la settimana, preferendo la tecnica di lavaggio detta “a pezzi”, più rapida e igienica, forse era a causa delle sue origini contadine e del mestiere di maestra elementare, che l’avevano abituata a miasmi peggiori. Ma rimane in silenzio, e si limita a fornire così poca attenzione al crème caramel (ho finito il mio da secoli e sarei disposta a uccidere per averne ancora) da implicare tra noi un baratro strutturale, simile a quello tra caste indiane, o tra diverse razze di cani. Poi posa la forchettina, allontana il piatto ancora pieno e mentre mi concentro al massimo per ignorarlo fa: “Comunque io ne conoscevo, di persone con le macchinine. E anche di quelle ricche, che festeggiavano i diciottesimi in villa. E anzi, ti dirò di più: a quelle feste, se mi invitavano, io ci andavo anche. Non per la cosa in sé, sia ben chiaro, ma per la pura esperienza sociologica”.
E dunque è così che stanno le cose.
Giulia, fiorita di sedici primavere, non solo era immune a roba indegna quale il sebo in eccesso, i fluidi fuori controllo e i pantaloni peruviani a righine, ma si mescolava, perfettamente a suo agio, a tamarri in abiti Valentino – rifiutando di schifarli a priori in quanto ricchi e dunque cattivi e quasi sempre di destra – dopo averne pesato il potenziale arricchente.
Dov’ero io mentre lei danzava il valzer, a mezzanotte e con l’orchestra al completo, c’era la luna magari; in quei momenti, dove mi trovavo? Forse in luoghi pieni di piccioni malati, a bere alcolici schifosi in cento da una sola bottiglia, ripetendo frasi che non significavano nulla, che erano nient’altro che banalità.
Dico a Giulia che ci andavo anch’io, alla fine, alle feste; ed è possibile che una volta mi ci abbiano portata con la macchinina.
È ovvio però che non mi crede.
Fa finta perché è tardissimo, perché la notte è fredda anche se è solo ottobre; ma in verità lo sa che sto mentendo, e si capisce che non vede l’ora di sbattermi fuori di casa.
Allora mi alzo, biascico di un impegno il giorno successivo e mi avvio all’ingresso.
Prima di sprangare la porta, Giulia mi mette in mano un sacchetto dell’Esselunga, che aprirò già in strada.
Contiene il suo avanzo di dessert.
Ce l’ha rovesciato così, direttamente dal piatto.
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