Ho incontrato dentro al cinema semi deserto di mercoledì la madre del mio vecchio amico Lorenzo. Non ci vedevamo da qualche mese, dopo anni di oblio perfetto, quindi in realtà ci siamo salutati con affetto, ma nemmeno troppo. C’era anche il padre di Lorenzo, che ha detto: «Vedi là, che a veder Bellocchio sembra quasi di aver una proiezione casalinga, privata».
Infatti la sala era semi vuota, tutti nella maxi sala sotto o sopra (che l’orientamento dentro i cinema mi sfugge sempre) erano andati a vedere morir la gente in montagna, sull’Everest.
Noi invece là sopra (o sotto) a guardare questo ennesimo Bellocchio per chissà quale forma di fedeltà, e a chi. Se a un’ideologia, se a dei nostri noi del passato. La madre di Lorenzo prima che il film iniziasse mi ha detto:
«Hai letto che il film di Bellocchio è ambientato a Bobbio? Ti ricordi quella nostra unica gita insieme?» Io non mi ricordavo, pensavo che Bobbio fosse un filosofo italiano, neanche mi ricordavo di una località.
Ho negato e lei mi ha detto, «Ma sì dai, quell’unico viaggio che si fece, anni fa, te e e Lorenzo eravate in seconda o terza media, in quel posto tra la Liguria e l’Emilia», e io ho ricordato di un posto con dei fiumi: era Bobbio. «Quattro ore per andarci, una strada al limite», ha ricordato il padre di Lorenzo. E poi non c’era altro da dire. Abbiamo aspettato che iniziasse il film, loro davanti io dietro di loro e il figlio Lorenzo lontanissimo, nella città straniera con il suo lavoro e la sua nuova vita.
A uscita sala abbiamo commentato il film, con i genitori di Lorenzo. Io ero uscito quasi subito, per pensare alle mie cose, quando ancora scorrevano i titoli di coda, mentre loro due solo alla fine della proiezione. Mi ero messo fuori dal cinema a slegare la bici, e poi anche loro erano usciti e mi avevano detto che il film l’avevano trovato disorganico (cosa avranno voluto dire) un po’ confuso, e allora io ho detto la mia, tutto d’un fiato.
«Che con gli ultimi film Bellocchio parla sempre della stessa cosa, ovvero di lui stesso regista che faceva film e ora ne fa un altro ulteriore. Un film come metafora di una donna bellissima, con un naso importante, forse posseduta dal diavolo, forse da un dio, a rappresentare il film stesso, i film che ha girato in passato. Così belli che non sa nemmeno lui come ha fatto. Film e fare film legati tra loro, come le cose alla fabbricazione delle stesse. Film che dopo un’ora si interrompe, svelandone il meta livello, il fare e il presente impossibile, la lontananza del regista da quello che vuol dire, dal suo stesso film».
La madre e il padre di Lorenzo mi guardavano scocciati «Mah… Sì, sarà come dici, ma non è che sei chiarissimo».
«E poi c’è tutta la faccenda “sangue del mio sangue”», ho continuato, «la faccenda che Bellocchio fa lavorare tutta la famiglia nei suoi film, ormai la storia è un discorso privato o quasi, un linguaggio privato, che però si nega, che nemmeno esiste, con Wittgenstein».
«Ma che cosa stai dicendo?», mi ha detto la madre di Lorenzo.
«Cosa ti sei fumato?» ha detto Saverio.
Ma io ero serio, «Ma sì, non capite, il messaggio politico si è esaurito, anche il suo modo di fare film di un tempo non c’è più, la donna con il naso importante è stata murata viva, è là sotto che riemerge nuda e incomprensibile, identica, dopo anni, ma tutt’intorno sono morti: Bellocchio è finito».
Loro mi hanno guardato come si guarderebbe un figlio demente lontano e perduto e mi hanno detto: «Eppure ti ricordi in quella gita a Bobbio, eri così spigliato, così intelligente», ecco cosa pensavano slegando a loro volta le bici, mettendo le loro sciarpe rosse intorno ai loro colli, «Eri un bambino così bravo».
«E scrivi ancora?, mi hanno chiesto proprio un attimo prima di svoltare a una curva.
«Sì», ho urlato io, ma non credo che mi abbiano sentito.
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