L’assenza è un piatto di spaghetti al pomodoro prima di andare a lavoro. È un orzo in tazza grande nella sala d’aspetto di un ospedale. È un budino alla vaniglia che non riesci a mandare giù. Io non mi ricordo il sapore dell’assenza. Sarà che mi sono scottata la lingua con un tè bollente, sarà che mangio con poco sale perché ho la pressione alta. Non aggiungo spezie esotiche, non condisco con olio a crudo, non sfumo con vino bianco. L’assenza mi piace assaporarla così: pesante e inconsistente.
L’assenza è la traccia numero quattro di quel disco che ascolti in macchina mentre vaghi senza una meta precisa tra i vicoli della zona industriale. La ascolti a ripetizione, la canti col finestrino sigillato perché non possano sentirti fuori dall’abitacolo. Ma chi vuoi che ti senta alle tre di notte tra i capannoni della zona industriale. Allora alzi il volume e canti un po’ più forte, a volte stoni, non azzecchi l’acuto, inciampi sull’inciso, a volte pensi che dovresti comprare una chitarra e scrivere le tue canzoni perché non sei affatto male. Potresti anche vincere un premio importante. L’assenza è un giro di basso, è il rumore dell’ascensore che sale al quinto piano, è il silenzio del quartiere a Ferragosto.
L’assenza è l’odore di disinfettante, garze sterili, pigiami imballati, cravatte inamidate, petardi di Capodanno. Hai comprato un detersivo nuovo, hai aperto tutte le finestre per far cambiare aria, hai persino provato il deodorante per ambienti della pubblicità. Non è cambiato niente, è come se l’assenza avesse impregnato i muri, le lenzuola, il divano del salotto, le tovaglie nel cassetto. Ma ci si abitua agli odori, un giorno entri in casa e non te ne accorgi più.
Io mi confondo. Se l’assenza è vuoto, è oblio, è mancanza di materia, come può essere un sapore, un suono, un odore? E se qualcosa non c’è, esiste? E se qualcosa non esiste, possiamo sentirne la mancanza?
Io mi confondo. Le ombre si allungano. Sono metalliche, viscide, stropicciate, hanno la forma dell’impossibilità, indossano gli abiti del giorno di festa, si acquattano sul sedile posteriore, dietro la porta del bagno, negli scaffali del supermercato. Sussurrano all’orecchio così da vicino che le parole diventano umide e si rapprendono e mi gocciolano sulle guance.
Non esiste una misura per quantificare l’assenza. Non esiste un codice per spiegarla, un linguaggio per tradurla, una matita per illustrarla, un dizionario per definirla. Arriva. Ti svuota, ti riempie, ti prosciuga e ti nutre, ti avvilisce e ti consola. Se ne va e resta.
E cosa resta a chi resta? Resta il traffico dell’ora di punta, restano le file alla posta, le gite fuori porta la domenica, i regali di Natale, i libri nuovi che odorano di impazienza, le mani sudate prima di un appuntamento, le ginocchia sbucciate, i messaggi vocali di sei minuti, le foto sfocate, i calzini spaiati, le notti a fissare il soffitto. Resta un piatto di spaghetti al pomodoro, resta la traccia numero quattro di quel disco che ascolti in macchina mentre vaghi senza una meta precisa tra i vicoli della zona industriale. A chi resta, resta.
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