di Selene Mattei
Ammessa l’ipotesi del quarto d’ora accademico di scarto per concesso ritardo, l’esame iniziava alle 10.45 e Luca era in ritardo di un quarto d’ora sul quarto d’ora accademico. Camminava come un penitente mortificato da una confessione mostruosa, o uno sventurato conscio delle sue proprie disgrazie, ma la postura ricurva era dovuta ad un piccolo zaino con penna, libretto e riassunti che premurosamente nascondeva sotto la giacca dal temporale.
Pensandoci bene di clemenza poteva persino vantarsi perché dal suo smartphone vecchio di due generazioni — la cui distanza è quindi considerevolmente più ampia da quella che intercorre tra un baby boomer e un millennial — non poteva aggiornare nessuna applicazione, ma gli era ancora permesso di toccare i nomi sulla rubrica per chiamare chi voleva. Miracolo tecnologico.
Prima di uscire, Luca aveva spinto con l’indice il nome della madre e il telefono di lei aveva squillato dall’altra parte.
Da tempo si interrogava se chiamarla sempre, prima di un esame, fosse una dimostrazione affettiva di ordine generale o se invece derivasse dalla sublimazione del senso di colpa che aveva nei suoi confronti, per avergli permesso di studiare fuori, nonostante le condizioni di indigenza che soffrivano dalla morte del padre.
Sua madre conosceva la risposta, ma al figlio parlava d’altro rispondendo da un telefono di antichissima generazione, capace ancora di intercettare le chiamate dei telefoni di più nuova generazione e di passare la voce da un capo generazionale all’altro.
«Come stai ma?», «Bene, bene», bene come a non rispondere la verità, perché nessuno confessa con sincerità la solitudine patita, quando si è costretti all’unica visita periodica di pubblicità e bollette nella cassetta delle lettere.
Lontana dalla classe media aveva mai avuto il tempo per farsi degli amici?
Può darsi, in ogni caso anche lei doveva aver visto diversi film realistici che tradivano la vita ed altri fantastici che deludevano i sogni: si era sposata pensando di invecchiare con suo marito e quando era scivolato giù da un’impalcatura di un palazzo con i vetri sporchi non si era salvato volando.
«Che schianto!», dicevano un tempo gli uomini, quando passava, ma a sessant’anni era lontana da ricchezza, bellezza e giovinezza, in definitiva manchevole della trinità necessaria a risparmiarla da un destino misero.
Dai, scegli: pillola rossa o pillola rossa? Era quel che si dice una donna spacciata.
Dieci ore al giorno lavorava, sette dormiva, due mangiava, una puliva, e le altre quattro ore restanti, sua madre le perdeva tra le virgole di questi punti.
Alla stessa ora, di mattina e di sera si alzava e si stendeva, si stendeva e si alzava sui giorni che passavano dal lunedì al sabato, e dal sabato al lunedì ancora.
Oltre alla cassiera in un ipermercato aperto tutti i giorni, anche la domenica!, da quando Luca studiava all’università era stata assunta in un call center. Veniva valutata dai clienti con un punteggio che andava da una a cinque stelline gialle, sempre più sorridenti a salire. Rispondeva radiosa dicendo: «Buongiorno! Chiamo da un call center italiano…»; nonostante la nazionalità espressa, molti riattaccavano subito.
La cucina internazionale le piaceva, o forse le piaceva perché rispetto a quella italiana poteva permettersela. Tutti gli anni, persino dopo che il cranio del padre si era fracassato a terra, per la cena del suo compleanno uscivano al messicano. Lenti e abbondantemente, mangiavano come mangiano quelli che al ristorante non vanno mai. Festeggiavano in silenzio; le bocche impegnate ad impastare il cibo. Finito il caffè sua madre tirava fuori delle banconote stirate che lisciava nuovamente tra le mani, come a collaudare la realtà: strano a dirsi, al tatto i soldi sembravano veri.
Li lasciava sul tavolo con un gesto definitivo, allacciava il giubbotto fin sopra il mento e inforcava sul viso degli occhiali ovali nero scuro che riflettevano la luce delle macchine in strada; diceva: «Andiamo».
Pagare il conto era il suo forte.
E andava, Luca, questo faceva tutto il giorno, senza un minuto per pensarsi. All’università, tutti i giorni, e quattro volte alla settimana a lavorare in un negozio di cover per cellulari. Dagli espositori la gente preferiva quelle con frasi disfattiste o che ironizzavano sui disturbi mentali. Nella più venduta dell’ultimo mese c’era disegnato un cactus arrabbiato che bofonchiava: Buongiorno un cactus. Quando invece erano loro a personalizzarle scrivevano frasi tipo: Io e te…come nelle favole!
Lo voleva dire alla madre, al telefono, per farla ridere delle contraddizioni della vita moderna, che avanza senza binomi nella complicazione totale, nell’illusione della scelta di poter star bene o fallire, ma ammessa l’ipotesi del quarto d’ora accademico di scarto per concesso ritardo, Luca era in ritardo di un quarto d’ora sul quarto d’ora accademico, e prima dell’esame voleva solo sapere da lei che sotto il destino, tra la bagarre delle cose che accadono, sarebbe stato fortunato.
Antares dice
Lettura piacevolissima, che in modo acuto e leggero, in stile amtifrastico, va a toccare argomenti spinosi ed importanti della nostra quotidianità. Grazie per la lettura.