In pratica questa casa editrice emergente molto cool mi ha messa sotto contratto. E potete fidarvi quando dico che mi danno, come si suol dire, una barca di soldi.
Mi inviano questo messaggio su carta filigranata finissima, vergato con inchiostro contenente minuscole pagliuzze d’oro, che dice pressappoco così: scrivici un libro, ma che sia un cazzo di capolavoro. Una roba da strapparsi gli occhi, instant Premio Strega. Fondi illimitati, chiedi e ti sarà dato.
Sorseggiando un Martini UltraDry liscio come il pelo di un levriero afghano, ho dettato al mio segretario mozzafiato la seguente risposta: hei tesorini, faccio quello che posso, non mettetemi fretta o non se ne fa di niente.
Poi mi sono liberata dell’asciugamano e ho preso posto sul gonfiabile a forma di isola caraibica con palmizio glitterato. L’acqua della piscina, mantenuta a temperatura costante 365 giorni l’anno da un costosissimo regolatore termico, ricordava la consistenza di una vestaglia di seta.
Ho ripensato ai tempi in cui ero all’American Jewish Chronicle, a quelle scrivanie dal design dozzinale. Poi mi è venuto in mente che con l’anticipo avrei acquistato una collinetta di bamba non tagliata direttamente dalla Colombia e mi sono subito sentita meglio.
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Sono stata ingaggiata da questa casa editrice nuova, l’ho già detto? Molto sofisticata, very trendy. Tra l’altro mi sa che porta anche una discreta merda, perché neanche il tempo di incassare il primo assegno che mi schianto col Porschino verde lime tornando da non so dove e mi sfascio una gamba.
Secondo me se la sono sgamata che questo libro, ormai è chiaro, non lo consegnerò mai.
Comunque, mi hanno prelevata dalla clinica privata dove me la spassavo con gli antidolorifici per recapitarmi in una specie di cottage nel deserto, con l’ennesimo assistente esteticamente appagante che passa l’ottanta percento del tempo a trascrivere furiosamente qualsiasi cazzata io dica e il restante venti a spiarmi con gli occhioni grandi grandi, più un infermiere crucco con cui vanto un certo credito e non dico di più perché ci tengo alla privacy. Mi sistemano su questa specie di lettone ortopedico e subito drin: sono loro al telefono.
Mi notificano che sarà un soggiorno alcool free e che posso scordarmi di fare uso di droghe. Dicono anche che ho meno di un mese per impacchettare la gallinella dalle uova d’oro e che farò meglio a rientrare nei tempi, perché c’è un tizio famoso che vuole farci un film e gli stanno smerciando i diritti sull’unghia. Faccio notare che ormai nessuno fa più telefonate, ma poi sul fisso, stiamo scherzando? In ogni caso hanno già messo giù.
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La buona notizia è che, grazie a dio, due bocce di qualcosa di fermentato e distillato si rimediano ovunque, ergo tra quelle e una mezza valigia di sonniferi – non il massimo per movimentare l’ambiente, ma bisogna adattarsi – alla fine ce la siamo cavata.
Tomo consegnato, compenso fatturato, catapecchia abbandonata e ritorno alla civiltà se per civiltà si intendono queste festicciole dove l’abito meno costoso vale più della tua macchina e i bicchieri sono sempre pieni e siamo tutti molto molto fatti ma io sono sempre di gran lunga la più fatta e finisco puntualmente a sgottare in qualche posto bene in vista con mio marito (poverino) super sobrio che mi tiene la testa e apre la bocca per la prima volta in tutta la serata solo per giurare: ma no tesoro, non mi fa schifo affatto.
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Il libro, bisogna dirlo, è andato come vanno i libri. Insomma.
Il film invece. Wow.
C’è stato solo questo problemino, che qualcuno ha voluto leggerci dei riferimenti a un noto personaggio della cultura odierna e lui, diciamo, non l’ha presa bene. Quindi casini con la distribuzione, linciaggio ai festival, giornali impazziti, shitstorming sistematico. Chiaramente per rimanere on topic se l’è visto chiunque e ammettiamolo, mi sa che è la cosa migliore che ho scritto.
E poi: lo dico? Non lo dico. Lo dico? Vabbè: pare che mi becco un Oscar.
Pensa che quei gonzi della casa editrice fighetta non volevano neanche che ci mettessi il nome. Dicevano: sì, ok ti prendi un premiuzzo, e a seguire? Everlasting gogna? Esilio in terra straniera? Guarda che causa globalizzazione non esiste manco più la terra straniera, al massimo ti rimane di crepare alcolizzata.
Ma sapete che c’è? Io sono qui, e sono talmente sbronza da ricordare a malapena il mio nome (Hermine Mankiewicz? Hermione Mankiewicz?), mentre pattino su un parquet di gran lusso lucido come un cucciolo di foca e il telefono non smette mai di vibrare perché c’è ancora una nuova notifica a sancire che sono a tutti gli effetti la persona più simpatica nel raggio di parecchi chilometri e possiedo sedie a sdraio vintage, servizi da tè cinesi che non uso mai, una casa al mare interamente incrostata di coralli ma soprattutto una mente così pazza da riuscire a immaginare cose tipo una slitta con un nome o un universo distopico in cui gli scrittori non sono tutti sfondati di cash nelle loro ville multipiano come è invece nella realtà, perciò in conclusione chissenefrega.
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Come volevasi dimostrare i fresconi della casa editrice à la page non avevano tutti i torti, ed è ormai cosa certa che passerò il resto dei miei giorni non proprio al top, scrivendo roba così così e tentando di non dare nell’occhio, finché questa china autodistruttiva su cui surfo a livelli agonistici da prima di nascere mi farà schiattare depressa e col sangue saturo di tossine schifose.
Il mio ex fratellino sfigato, che ormai di Oscar se ne è intascati quattro, per consolarmi sostiene che nel giro di poco qualche regista famoso fiuterà il fascino del meta-meta e si metterà al lavoro sulla mia vita, anzi su quando me la sono rovinata scrivendo un capitolo memorabile della storia del cinema. La protagonista avrà il doppio delle mie tette e gireranno tutto in bianco e nero retrò, a fronte di un budget poco meno che criminale.
Poi però il film uscirà su Netflix; e se il primo giorno ne parleranno tutti, quello successivo l’avranno già dimenticato.
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