di Tommaso Ghezzi
La solitudine non è il male, anzi, è un bene. Il problema, semmai, è l’isolamento. Sovente mi capita di passare intere settimane in casa, in un’anacoresi laica, a ingoiare junk food e guardare film di merda. In quei segmenti di tempo in cui non c’è altro che me, nelle stanze, e le costole dei libri.
In una delle ultime sessioni di isolamento autoindotto, mi sono guardato allo specchio e ho visto Laura Antonelli, con una parannanza floreale e gli occhi tristi. Gonfia in viso, superava il quintale di peso ma era ancora presente e viva.
«Visconti disse che ero la donna più bella dell’universo» mi dice, Laura, presentificata. «Perché avevo il volto sacro da Madonna e il corpo pagano da Venere».
Dopo quel film ti sei fatta rivedere in pubblico solo nelle aule di tribunale. Ma perché avete fatto ‘sta cazzata del sequel? Era evidente che fosse una stupidissima idea di Silvio Clementelli solo per fare cassetta, no?
«Sorridendo, mi disse: mettiti i collant color carne sotto l’autoreggente, cerchiamo di rimuovere anche quelle rughette là intorno all’occhio, con un po’ di collagene torni una venticinquenne».
Ma tu avevi già manifestato i segni dell’Edema di Quincke, Laura? Sei certa che le due cose fossero collegate?
«Eccone un altro! ma sei forse medico, tu? Lo sai come reagire all’angioedema? Non basta mica l’antistaminico! Nelle forme più aggressive serve il cortisone» dice Laura «Malizia 2mila è stato il diagramma perfetto del mio cupio dissolvi» dice «Una donna come me resta bella per sempre, ma solo a patto che resti al di là dal buco della serratura; solo se isolata, rinchiusa, rintanata».
Laura, ma era così importante essere attraente per un pubblico del genere?
«Ho avuto compassione degli italiani che popolavano le sale dei cinema erotici quando ormai il porno era stato sdoganato, quando Moana Pozzi andava in televisione e Ilona Staller sedeva in Parlamento. I deboli che passavano le giornate con le mani nei pantaloni guardando i miei film, dove di fatto non si vedeva niente, anche se si svelava tutto».
Di te, Laura, era innamorata l’Italia muscolare dei bar e degli spogliatoi, l’Italia del Campari a mezzogiorno e mezza, l’Italia del colpo di tosse soffocato dopo il Punt e Mes, con l’occhio comunque fisso sul culo della ragazzina dietro il bancone, l’Italia che ripete tra sé che se smettessimo tutti di invecchiare, diventerebbe triste anche la giovinezza, abbarbicata al topos puberale dell’adolescente che sfiora le erezioni, nel caldo appiccicoso delle notti estive, che fa sudare la carne sotto le lenzuola di percalle. Di te era innamorata un’Italia che non ti meritava, Laura.
«Tutto è sogno, amore mio; smettiamo di scopare, che tanto il sesso genera troppe contraddizioni, diventa solo un pretesto per verificare i nostri poteri: chi tra noi tiene la torcia contro chi? Chi la macchina da presa verso chi? Chi recita, con un fondo di genuinità, contro quelle inquadrature soggettive che sa – lo sa benissimo – rovineranno almeno una vita tra le due?» Dice Laura, mentre Vittorio Storaro, con un telo bianco, fantasmatico, calato sulla macchina – nello stato fluttuante della coscienza – la segue nel buio della stanza, e solo Salvatore Samperi, dietro di lui, a puntare la torcia sulle natiche, sui seni, sul ventre, solo le risa amare di una donna che cade e poi niente.
Tommaso Ghezzi esiste a cavallo tra le province di Siena, Arezzo e Perugia. Insegna italiano e storia agli adolescenti, scrive saltuariamente cose, ascolta i Death in Vegas. Un suo racconto è apparso nell’antologia “Odi – Quindici Declinazioni di un Sentimento”, del 2017.
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