di Matthew Licht
Prima che ci fosse Julian Schnabel, c’era Orson Welles. Il regista ancora in vita sussurrò all’artista ancora ragazzo: sei grosso? Allora fai le cose in grande. Ma non contrastare il potere. Non sarai mai grande abbastanza, e poi non ne vale la pena.
Chi è veramente onnivoro divora il mondo. Orfano di madre in adolescenza, Welles lasciò casa, andò in Irlanda, comprò un somaro, visse, vagò. E disegnò, disegnò, disegnò. Non è nato, come Schnabel, per fare l’artista visivo. Schizzò caricature dell’umanità, come un suo collega italiano. Aveva una visione drammatica dell’esistenza, una natura teatrale. Le immagini che bruciò su pellicola sono da film muto, comprensibili anche a eventuali invasori marziani. Soprattutto aveva una voce che vibrava sdegno per l’odio e l’ignoranza.
Davanti al mondo che vide, non poteva restare muto. E la pagò cara.
Sedusse e sposò Rita Hayworth, ma anche quella storia finì male.
Il regista/narratore del documentario fornisce immagini deprimenti del vuoto che si lascia dietro un gigante quando precipita. Inutili speculazioni su cosa avrebbe combinato se fosse rimasto in vita nel secolo attuale. Rilancia l’ indimenticabile immagine di un castello abbarbicato su una collina, pieno delle cianfrusaglie di una vasta vita. La candela nell’unica finestra illuminata è spenta da un sospiro osceno.
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