di Francesca Mattei
Tra meno di un’ora compirò trent’anni. Guido con il tramonto davanti agli occhi, in direzione del ristorante in cui i miei amici hanno organizzato una festa. Indosso un abito che ho comprato il giorno dell’esame di maturità. I vestiti che porto da anni, invecchiano e sbiadiscono con me. Da neri diventano grigi, fuliggine, o marrone scuro. Sono pieni di fori invisibili, dovuti all’usura, come quelli di una vecchia strega consumata. Non so perché mi ostini a restare legata a oggetti che la maggior parte delle persone riterrebbe spazzatura, ma liberarmene è una delle tante cose che non sono capace di fare. Nonostante sia adulta, ci sono parole che non sono ancora in grado di dire, non perché non le sappia pronunciare, ma perché esistono termini che non riesco immaginare uscire dalla mia bocca. Li censuro, nel mio cervello, prima ancora che possano diventare reali.
Ripenso al giorno in cui presi la patente. Come adesso, il tepore dell’abitacolo mi faceva pulsare le tempie. Sono passati dodici anni e non posseggo ancora un’auto di mia proprietà, faccio benzina solo quando si accende la spia della riserva e dimentico puntualmente di pagare il bollo. Questo è il genere di cose delle quali mi vergogno. È come se ci fosse tutto un Mondo – fatto di scadenze, date e doveri quotidiani – che non smette di essere stancante con l’abitudine all’età adulta. Anzi. Il pensiero che la vita non sia altro che lavorare, pulire il pavimento, avere sempre qualcosa di irrisolto o di incompiuto e mai un momento – o l’energia – per una cosa bella, da godersi senza la paura del tempo che passa, è un deterrente a crescere.
Eppure sto per partecipare alla festa del mio compleanno. A sette anni sarei stata entusiasta.
Il navigatore del cellulare indica dodici minuti al termine del viaggio. L’idea di quei visi in attesa del mio arrivo mi riempie il cu*re di tenerezza, una cosa che mi succede, a volte, guardando le persone intorno a me. Come questo pomeriggio, quando ho scorto mia nonna pettinarsi dallo spiraglio della porta del bagno. Indossava un pigiama pesante, blu elettrico. Acconciava i capelli all’indietro, con un pettine a denti stretti, utilizzando un minuscolo specchietto rotondo per controllare le basette, lo stesso che usava da giovane per truccarsi. Mentre la osservavo, ho pensato distintamente Ha vissuto tre volte la mia vita.
Mancano pochi chilometri all’arrivo. Alla rotonda prendere la seconda uscita, ma svolto prima. Il navigatore ricalcola il tragitto, emettendo una serie di bip, ma non lo ascolto. Arrivo in spiaggia e parcheggio lungo la strada, di fronte alla colonia abbandonata. Lascio il cellulare sul sedile del passeggero per evitare di sentirlo squillare quando gli invitati si accorgeranno che ho dato buca.
Superata la schiera di villette, cammino lungo gli scogli e arrivo alla battigia. Mi siedo sulla sabbia. Fredda. Umida.
A fianco a me, una bambina con un fiocco rosso in testa allinea una serie di conchiglie, sassolini e piccoli pezzi di vetro e immondizia secondo una logica precisa. Si scosta i capelli dagli occhi usando i polsi minuti, perché le mani sono sporche di melma, e riprende il suo lavoro con cura, mentre la madre chiacchiera con una coppia di anziani. La osservo e realizzo che parla una lingua che non posso più capire. Sono cresciuta e ho imparato a tenere i capelli in ordine e le dita pulite, ma a quale prezzo, se quello a cui ho dovuto rinunciare è un intero linguaggio?
Dopo pochi minuti, la madre saluta gli anziani e si dirige verso la figlia. Calpesta distrattamente la composizione sulla sabbia e l’afferra per l’avambraccio. La bambina solleva lo sguardo, incredula e fer*ta, e comincia a piangere. La donna la prende in braccio, cercando di consolarla, ma senza capire, senza poter mai capire, la ragione di quel dolore. Si allontanano, cariche di borse e giocattoli, e spariscono dietro gli scogli. Che colpo al petto sapere di non poterla aiutare. Non poterle dire Io l’ho visto, il disegno, ed era bellissimo. E il senso di colpa che mi assale, che mi paralizza, mi costringe a ricordare che è ancora possibile sentirsi così e, allo stesso tempo, è impossibile essere consolati.
Resto seduta ad aspettare la notte.
La luna è solo uno spicchio illuminato, ma si intravede l’ombra della sfera nella sua interezza. Le stelle, invece, sono invisibili.
In lontananza, da una casa alle mie spalle, arriva una melodia sottile. È un pezzo che ascolto spesso, mentre preparo la cena.
Splendido Amo*e, splendido perché mi condanni a rimanere in vita.
Anche il mare, con le sue onde, canta una canzone, in fondo, anche se non posso capirla. Gli vado incontro, senza togliermi i vestiti o le scarpe, e mi tuffo. La musica è sempre più lontana, ma riesco ancora a sentirla.
Nascerà un nuovo Mondo, gentile e imperfetto, ma immune da tutto.
Nuoto, portando un braccio davanti all’altro, fino a che non sento più la musica e il mare è talmente scuro che sembra una magia.
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