Il lubrico regista ispanico Pedro Almodóvar, in vista della stesura del nuovo film incontra un’attempata insegnante madrilena sotto le mentite spoglie del sociologo del lavoro Aldo Móvar. L’obiettivo è trarre ispirazione dalla vita complessa di una donna abbattuta dal fato per mettere insieme un’opera che restituisca vigore alla sua popolarità, da tempo in lento ma inesorabile declino.
“Mia cara, sei radiosa stamattina.”
“Dici? Mah. Ti ringrazio però davvero non saprei. Ieri ho passato quasi tutto il pomeriggio a letto, mi sono smossa solo per spostarmi fino all’armadietto dei liquori. A un certo punto devo proprio essere crollata perché stamani mi sono svegliata con le lenzuola che puzzavano d’alcool da fare schifo.”
“Non colpevolizzarti tesoro, la tua è una vita difficile. Sei così vulnerabile.”
“Vulnerabile, già. Era il compleanno di quella stronza di mia figlia, che non contenta di non farsi viva da anni, per l’occasione mi manda puntualmente un biglietto di auguri. Senza mittente, senza una parola. Ti rendi conto? Tanto per tormentarmi un po’ e ricordarmi quanto mi odia. Però i campeggi pagati in montagna se li è fatti tutti, e quando ha deciso che dovevamo trasferirci in città per star dietro alla sua amichetta ricca io non ho fatto un fiato. Bel modo di ripagarmi, la ragazza. Da quando se n’è andata sono invecchiata tutta insieme.”
“Cerca di non colpevolizzarla troppo, pensa a quanto deve avere influito su di lei la morte del padre, sant’uomo. E quanto deve essere stato pesante assistere alla tua depressione. E poi le occhiaie così pronunciate e quelle rughe sul viso ti donano un’espressione meravigliosamente intensa.”
“Ti ricordo che quel sant’uomo di suo padre si scopava da anni la nostra vicina, e il fatto che abbia deciso di andarsi a ammazzare il giorno in cui l’ho scoperto è stato un vero colpo di genio, tanto per evitare di affrontare la questione e omaggiarmi di un rifornimento a vita di sensi di colpa. Pure la domestica guardona mi aveva messo in casa. Casa che peraltro o era della moglie morta o non so come potesse permettersi, visto che passava il tempo a pescare patelle. Quando l’abbiamo seppellito ce la siamo venduta, ma i soldi son bastati appena per la caparra dell’appartamento in centro a Madrid che quel tesoro di mia figlia mi ha fatto affittare. Per star dietro a lei avevo anche smesso di insegnare, non hai idea del mazzo che ho dovuto farmi per rimettermi in carreggiata.”
“Tesoro, dev’essere stata così dura. Vi immagino voi due, trapiantate dal vostro piccolo paese di mare alla città, senza una figura maschile a sostenervi. Lei che si prende cura di te mentre tu affondi nello sconforto… ti disturba se prendo appunti?”
“Ma quale sconforto? Avessi avuto tempo di crogiolarmici almeno un po’, ma niente. Tra affitto, bollette e le frequentazioni altoborghesi della signorina ho dovuto ricominciare a lavorare come una pazza, di giorno a scuola, la sera arrotondare come capitava. Che poi qui in Spagna sulla questione del welfare andrebbe aperta una bella parentesi, ora ho più di cinquant’anni e la pensione non la vedrò mai. Per non parlare dei contributi mai versati sui lavoretti occasionali, delle condizioni indecenti dei lavoratori alle scuole private perché nel pubblico… Vuoi segnarti anche questo?”
“Cara, non parliamo di lavoro. Il lavoro, come la vita dei lavoratori, ha smesso di essere interessante negli anni Ottanta. Il dramma, il conflitto, questo si che piace invece. Raccontami ancora di quando, dopo che tua figlia ti ha abbandonata, le scrivevi lunghe lettere dal tuo loft con arredamento moderno, vestita solo di un négligé di seta bianca.”
“Ma quale loft? Non appena la simpaticona se n’è andata per affiliarsi a non so che setta di fanatici mi sono rivenduta quasi tutto per pagare i debiti, ho lasciato la casa per una più piccola e mi son messa a far supplenze nei licei. Se per arredamento moderno intendi i mobili Ikea allora tutto bene, ma la seta mi sa che al massimo l’ho vista usata al mercato. È una brutta bestia, il precariato.”
“Certo, mi immagino. Però mi piace pensarti in un grande appartamento luminoso, con la cucina a isola e il videocitofono, mentre cerchi di rifarti una vita con un uomo sofisticato, un italiano magari, un critico d’arte. Ecco anche questa è buona, ti disturba se scrivo?”
“Rifarmi una vita, certo. Un marito morto e maschilista, la mia unica amica che guarda caso era anche quella che se lo scopava, una figlia manipolatrice che faceva la stalker con le sue amichette e che a una certa ha deciso di levare le tende senza salutare, secondo te cosa c’era da rifarsi? Se non contiamo un paio di cene e due o tre scopate casuali direi che stiamo a zero.”
“Tesoro, non abbatterti così. In fondo è tutta una questione di punti di vista. Certo, ci sono le questioni prosaiche della vita, ma l’importante è non cedere e guardare a noi stessi come ai personaggi di un bellissimo romanzo. Ad esempio, se eliminiamo tutti i dettagli un po’ più spiacevoli e banali, come la faccenda della pensione, dei contributi, l’affitto da pagare, i mobili rivenduti e cosette del genere, ecco la tua storia sembra proprio tirata fuori pari pari dai racconti di quella vecchietta canadese che ha vinto il Nobel. Pensa cara, non ti cambia tutta la prospettiva?”
“Non ti seguo. Non eravamo qui per parlare della difficoltà del reinserimento lavorativo delle madri single?”
“Potremmo anche parlare di questo, ma onestamente, chi ce lo fa fare? Dai su, non importa niente a nessuno. Bene il dolore, ma la verosimiglianza lascia un po’ il tempo che trova. Allora facciamo che tuo marito non era un paraculo da antologia e tua figlia una sadica con seri problemi di accettazione del suo orientamento sessuale, facciamo che l’appartamento in centro te lo pagavi lavorando part time come correttrice di bozze e non spaccandoti la schiena e correndo dietro ai sindacati, facciamo che il dramma di base è quello, ma la cornice magari la rendiamo un po’ più esteticamente appagante. Che ne dici?”
“Mi sembra una grandissima stronzata.”
“E invece è genio, è genio cara mia. Ed è grazie a questo genio che mi beccherò gli applausi a Cannes, che ritornerò ai fasti creativi di un tempo e che i miei mal di testa mi lasceranno finalmente in pace.”
“Buon per te. Ma anche con la cornice appagante tutta questa situazione mi sembra di una noia talmente debordante da sfociare nel letale. E te lo dico io che ci sono dentro.”
“Ma tu non sei un’artista, tesoro. Io sono l’artista, io trasformo la banalità in lacrime e incassi. E guarda quante cose splendide hai avuto la generosità di regalarmi: relazioni fallite, morte, abbandono, depressione, un accenno alla questione del gender e tanto, tanto dolore. Se aggiungiamo un po’di abiti fantasia, carte da parati anni Sessanta, qualche omaggio a Hitchcock e capelli cotonati siamo a cavallo, sono di nuovo in pista.”
“Contento tu. Comunque io devo andare. La mutua non mi passa lo psichiatra e per pagarmelo devo fare i sabati e le domeniche al call center.”
“Scusami tesoro, non ti sento. Ho le orecchie piene di applausi.”
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