di Tommaso Ghezzi
Tonio tiene ben separate le valve della fava, spalancata con i pollici ben saldi sui bordi e con una reverenza tattile quasi come contenesse un rosario. Sgrana i baccelli uno ad uno e li appoggia nel mucchio, retto da uno strofinaccio di lino adagiato sulle cosce.
Dice «Dovremmo pulire casa», mentre non fa nulla per assecondare quello che ha appena detto, anzi lascia molte bucce scivolare sull’impiantito, già laido di polveri e chiazze appiccicose qua e là nella quarzite del salone.
«Questa casa è un merdaio» dice. «Ancora ci sono i sacchi neri di tre giorni fa, là sotto», e indica con il mento lo sportello abbondantemente fuori squadra, sotto l’acquaio. «Per non parlare del bagno, ragazzi, a chi toccava pulire ieri? Sembra di entrare nei cessi del Classic di Riccione…» gli altri coinquilini stizziti nemmeno lo guardano. «Sapete cosa? Dovremmo trovarci una donna delle pulizie».
Donna, ovviamente, mai Uomo delle pulizie, neanche Signora delle pulizie, non rispetterebbe lo schema topico della domestica ventenne un po’ lasciva e ingenua, che si dimentica sovente di mettersi le mutande, svergina il primogenito di famiglia, si fa simpaticamente mettere le dita nel culo dal più vecchio di casa mentre spolvera la libreria.
«Una tipo la Cosa, come si chiamava quella mora?» chiede Tonio a Luis, il più cinefilo dei coinquilini. «Laura Antonelli?» Risponde secco.
«No, dai, è un altro personaggio brancatiano» e aggiunge: «quell’altra, tipo Laura Antonelli».
Luis contrae le punte della bocca, schiaccia il mento e scuote la testa. Il disappunto di Tonio è percettibile dai movimenti delle pupille. Grande lacuna. Imperdonabile lacuna.
«Lili Carati!» urla alfine Tonio, come fosse un indispensabile eureka. «La facciamo venire due o tre volte a settimana, così mette un po’ a posto ‘sto bordello», dice. «Se i nostri genitori, come ammennicolo borghese, avevano l’Hi-Fi o la Pay per View, la nostra generazione ripristinerà lo statuto utilitaristico della domestica».
Intanto Tonio non ha più i baccelli in mano, né lo strofinaccio sulle gambe. A guardarlo bene non ha nemmeno più i vestiti che aveva prima, ma una vestaglia in viscosa con un pattern floreale. Regge una pipa con tre dita mentre va ad aprire il portone. «Eccoci, si accomodi».
Quando entra, sembra che gli occhi la precedano di dieci passi, tanto riempiono la stanza. È già con l’abito nero corto e il grembiule bianco, la coroncina di pizzo appoggiata sulla testa.
«Dunque, facciamo 150 a settimana, le va bene?» dice, «poi mi dice come li vuole questi soldi, se tramite voucher oppure…» e comincia a ruotare la mano destra, con le palme rivolte al tappeto, disegnando con le dita cinque cerchi nell’aria, «oppure troviamo altre soluzioni, ecco».
Intanto Luis è scomparso dalla posizione che occupava poco prima. D’improvviso, ha 15 anni in meno e sta seminascosto dietro la porta in legno massello che divide l’area notte dal soggiorno. Fissa il volto e le gambe della domestica, sudando e salivando più del dovuto.
«Ah, là dietro c’è Luis, il nostro signorino di casa… Luis! Vieni fuori!»
L’ossimoro semiologico della donna delle pulizie sporcacciona entra nei vasi linfatici del giovane che stenta a muovere il braccio per tendere la mano verso quella concretezza ontica di grazia ed erotismo: già la vedeva in ogni poster, ogni copertina, ogni lembo di carta, impreziosito da quella carne stampata sopra; sembra uscita dagli olî di Ingres, non riflette ma immagazzina la luce intorno; pelle che si modella su un culo primitivo, minuto e granitico, su cosce dominanti, su gambe che sono strumenti da suonare e compassi che misurano il mondo, su un intero estetico per il quale servirebbero ancora impensate onomaturgie, come quelle di d’Annunzio o Gianni Brera.
Lei sembra intendere tutto, sembra percepire quel sessismo sistemico che entrava negli sguardi, nel modo di stringere la mano, nella scrittura dei dialoghi, nella morfologia delle parole.
«Vedi non è il mestiere che è brutto, ma è come viene fatto. Non dovrebbero essere loro a scegliere, ma noi…» diceva: ad ogni ciak di Pasquale Festa Campanile sorrideva, prima di entrare in scena. In quel cinema che desiderava ingenuamente oggettificare il corpo femminile, ma sventuratamente finiva per mostrare donne consapevoli, assertive, volitive, che schiacciavano uomini meschini ed ebeti, inani nella loro rozzezza, incapaci di contenere in loro qualsivoglia virtù muliebre.
«L’importante è chiudere in bellezza», dice Lilli Carati, mentre con lo sguardo trafigge i volti di Luis, di Tonio, e tutti gli altri oltre lo schermo. Poi, tenendo un laccino tra le labbra e annodandosi la coda di lunghi capelli neri dietro la testa, scuotendo il collo in un binomio di zelo e noncuranza, scompare.
Con lei, tutto il resto.
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