Per molti anni sono andato a letto presto, e ho sognato di avere ancora vent’anni. Perdere la testa, ancora una volta, per giovani e arrogantissime femme fatale – ciao, sono un tipo noioso, amo studiare – scrivere lettere e poesie, declamandole con lo sguardo dritto in camera, o allo specchio, o sussurrandole al tuo orecchio poco dopo aver chiesto – sei partita? – che si sa, gli uomini vengono, le donne partono; le ragazzine francesi stronze e carine ancor di più.
Quand’è che sono invecchiato? Quando ho cominciato a pensare che tutta quella roba nostalgica era imbarazzante? Che dovevo regalare il passaporto a quel me ventenne, salutarlo come un fuorisede che parte per Parigi e decidermi a vivere la mia vita, o forse solo una vita diversa, o forse solo una vita uguale a quella di tutti gli altri, affrancata dai misteri e dai batticuori della giovinezza. Quant’è difficile ammettere che i propri giorni più belli sono alle spalle e che non dovremmo parlarne più?
Sono a casa da solo, le ultime due settimane di vita da ventenne. Guardo film francesi troppo nostalgici per essere davvero profondi, e troppo intellettuali per essere davvero nostalgici. Li adoro. Quand’è che gli uragani di emozioni sono diventati troppo faticosi da integrare nella vita quotidiana? È difficile trovare il tempo per ricordare, in questa piatta frenesia delle giornate lavorative.
Non so bene come sono arrivato fin qui. Sono nato e cresciuto in provincia, questo sì, forse era Roubaix, forse era altrove. E da quella provincia sono sempre fuggito: da mia madre, dalla mia timidezza, dai miei rancori. Cosa rimane di quel me stesso? Non i ricordi, non il futuro radioso che sognavo e neppure gli amici. Forse solo il racconto di un’età dell’oro che mai è stata. È in questo racconto che oggi mi sento affogare, nei suoi amori folli, nelle sue rincorse e nei suoi slanci creativi. Chi sono tutti quei Paul Dédalus che affollano lo stesso split screen?
Ho ricevuto la tua lettera, cara Esther, e ho rimesso insieme i pezzi di questo racconto, gli sguardi vibranti che ci scambiavamo e i fremiti dei nostri corpi immaturi. Lì in quel letto, un giorno come tanti. Quando affogavo la faccia nei tuoi capelli e la vita non era più altrove. C’è bisogno di un tuo ultimo bacio, cara Esther, per assicurarmi che – sì, quel ragazzino sei sempre tu, te lo confermo! – prima che la vita da adulti ci ingoi e si chiuda la porta dietro le spalle.
Rispondi