Il 2020 è stato un anno difficile, pieno di inciampi, che vorremmo dimenticare ma che non scorderemo mai.
Abbiamo vissuto giornate lunghissime in un misto di panico, esaltazione e assenza di gravità; giornate in cui avremmo solo voluto guardare un film dopo l’altro in una devastante catena di pellicole che ci avrebbe condotti per mano verso una drammatica e molto scenografica implosione della vista, ma alla fine lasciavamo sempre perdere per due motivi.
Il primo è che, diciamocelo, fissare i piccoli schermi dei nostri computer scassati, ormai bloccati sulle pagine di ogni possibile piattaforma streaming, costituisce un’attività che ha in parte perso il suo fascino. Il secondo, forse il più cruciale, è che niente di quello che avremmo davvero voluto vedere, e che abbiamo atteso come innamorati fedeli durante le ore più dure, alla fine è mai uscito.
Forse la verità è che non è stato un anno duro solo per noi; a conti fatti anche il cinema non se l’è passata benissimo. Ma allora – ci siamo chiesti durante l’ennesima riunione Zoom – a che pro scannarsi per l’immancabile e amata classifica annuale? E’ dunque giunta l’ora di tacere, e attendere speranzosi e a mani giunte un 2021 che ci restituisca schermi degni di questo nome?
Dopo attente analisi, lunghe discussioni, litigi, botte, sangue, defezioni, urla, pianti, lettere d’addio, violenze e quant’altro, siamo giunti alla conclusione che, apocalisse imminente o meno, la top ten si sarebbe fatta. Non con i migliori film dell’anno agli sgoccioli (che poi in questo benedetto 2020 è davvero saltato fuori qualcosa di pazzesco? Fincher dite? Ma dai. Kaufman? Abbiate pietà di noi, non ce la possiamo fare) ma con i 10 che avremmo (e avreste) voluto vedere.
La vostra amichevole bocciofila di quartiere vi augura buon anno nuovo amici, o se non sarà buono per lo meno che sia migliore.
Noi rimaniamo qui, con gli occhi bene aperti e sempre in fuga, che di fermarci a ben vedere non ne abbiamo proprio voglia.
With love
La bocciofila
1 . Memoria di Apichatpong Weerasethakul
Dobbiamo confessarlo. Mentre ci recavamo, insieme ad altri cinque spettatori estasiati, nella nostra sala convenzionata Bocciofila per omaggiare il cineasta dal nome impronunciabile, abbiamo sentito le ginocchia tremare. Non tanto per la durata impossibile del film o per i suoi complessi dialoghi mistici, due elementi in assenza dei quali neanche ci disturbiamo a uscire di casa; quanto piuttosto per l’insidiosissimo effetto match in trasferta che a tanti valorosi del cinema d’autore è stato fatale (alcuni esempi: Wong Kar-wai, Park Chan-wook, Paolo Sorrentino, Xavier Dolan. Chi sono costoro, ve li ricordate? Noi preferiremmo di no, troppo dolore). Avanzavamo timorosi, ripetendo tra noi: “Apichatpong, ma non ti bastavano più i paesi tuoi, che ci dovevi fare a Bogotà? Non era bella la Thailandia, l’eccidio dei comunisti, il pad thai?”
Tuttavia (spoiler) non c’era motivo di dubitare, perché sebbene traslato sull’altra sponda del Pacifico, insieme a una Tildona ormai in odor di santità, il maestro e i suoi fantasmi sono in forma perfetta e anzi, hanno un messaggio. Non possediamo certo la saggezza per decifrarlo, ma si può dire che faccia più o meno così: se l’unica possibilità di vivere davvero risiede nella morte, allora il presente non sarà che l’attimo brevissimo in cui ci fermiamo a contemplare il passato.
2 . Annette di Leos Carax
Se doveste piangere per un qualsiasi motivo, sappiate che le lacrime che verserete saranno sprecate se prima non avrete visto l’ennesimo capolavoro di Carax. Non si tratta della solita pellicola decostruzionista, ma di un vero e proprio attentato dinamitardo al concetto di film. Ogni scena, ogni raccordo, ogni singola inquadratura è una vera e propria bomba a mano lanciata contro la standardizzazione delle narrazioni. Non ci sarà una sola parola che non sia carica di sovversione, un solo gesto che non declami la sovranità assoluta del clochard, da intendersi qui come stato d’animo, piuttosto che come un personaggio vero e proprio. A suo modo sadiano, Carax costruisce una trama fittizia dietro alla quale di nasconde il vero volto dell’umanità. Chi oggi tra tutti gli artisti di tutte le discipline è in grado di farlo? Ve lo dico io: Carax, solo Carax.
3 . Benedetta di Paul Verhoeven
Uno dei ricordi più vividi della mia infanzia (quasi) cattolica è un amico che, mentre il parroco snocciola l’omelia domenicale, mi racconta con dovizia di particolari quella scena di Basic Instinct (sì, quella che conoscete tutti). A occhio avremo avuto 10-11 anni, e c’è il rischio che la cosa mi abbia segnato per sempre. Sarà per questo che quando il caro Paul Verhoeven ha annunciato come prossimo film Benedetta, incentrato sulle avventure lesbo di una suora del ‘600, il cervello mi è letteralmente esploso. Sarà solo l’ennesimo film porcello di un provocatore impenitente, dite voi? Mi perdonerete, ma sono un po’ di bocca buona: adoro persino Showgirls.
4 . The French Dispatch di W. Anderson
Arthur Howitzer Jr. è l’anziano corrispondente in Francia del “Liberty, Kansas Evening Sun”, ma ormai stanco del taglio modereccio e frivolo che ha preso il giornale, decide di fondare “The French Dispatch”, il “suo” settimanale che ha tutte le caratteristiche di un inno alla libertà di pensiero, di azione, di stile, di vita, di chi più ne ha più ne metta. In vista di un’uscita commemorativa, i narratori purosangue della redazione del French Dispatch cercano il “numero” perfetto: i tre migliori reportage mai usciti, e i complessi personaggi che li animano.
In The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun – questo il titolo originale completo – il regista texano vuole come sempre sorridere, così mette una bomba in mano a Timothée Chalamet, ma la bomba gli scoppia nei capelli e ridono tutti, poi fa fare la parte dei cattivi poliziotti ai buoni poliziotti e distrugge un cliché narrativo a prova di bomba – per l’appunto – e alterna il bianco e nero ai colori, ma il bianco e nero diventa comico e i colori tragici – noi giovani cinefili contemporanei non ci capiamo più nulla. Forse che meta-cinematograficamente Wes Anderson ci voglia dire qualcosa sul paradosso di separare l’arte e la vita, il racconto e il fatto? Andatelo a vedere questo tentativo di Anderson, ne riderete dal piangere.
5 . Dune di Denis Villeneuve
Dimmi delle acque del tuo pianeta, Usul.
Da quando Denis Villeneuve ha annunciato di essersi messo al lavoro su Dune, ogni fotogramma sfuggito dal set è stato minuziosamente distillato come sudore da una tuta Fremen, per dissetare le esigenti gole dei fan rimasti troppi anni orfani di una trasposizione all’altezza dell’opera di Herbert.
Racconta un vecchio adagio che l’attesa del piacere è essa stessa il piacere, ma come insegnano le reverende madri Bene Gesserit: la speranza offusca l’osservazione, giovane Atreides, e ora che il regista canadese ha osato lì, dove anche Lynch aveva fallito, cosa possiamo dire di aver trovato dentro la sua visione? Dolore, direbbe ancora la nostra reverenda madre, ma non dovete averne paura: la paura uccide la mente, il dolore la tempra, il melange la apre, e se sarete in grado di tramutare il veleno in nutrimento per corpo e spirito, senza diventarne schiavi, sarete sulla via del Kwisatz Haderach.
6 . Tre piani d Nanni Moretti
Se i tre piani del titolo rappresentano i tre livelli dell’apparato psichico secondo la teoria freudiana, cosa dovrebbe significare, a livello simbolico, che Moretti per la prima volta non abbia lavorato a un soggetto originale, ma si sia basato sul libro di un altro?
E che Eshkol Nevo, l’autore del romanzo “Tre piani”, sia uno scrittore israeliano ha forse un significato politico recondito?
E Margherita Buy? Forse rappresenta un alter-ego di Moretti in una Roma non-binaria dove il gender non esiste più?
E Scamarcio, scusateci, ma con tutta la buona volontà ci dite cosa dovrebbe rappresentare esattamente? Questi e altri dubbi sull’ultima fatica di Nanni, a cui comunque vorremo sempre incondizionatamente bene.
7 . No Time to Die di Cary Fukunaga
In quest’ultimo capitolo Bond è così impegnato che non ha tempo per morire. Da una parte infatti le pratiche per la pensione sono un groviglio inestricabile – e la critica alla burocrazia inglese è il contrario di velata – dall’altra deve assicurarsi che il passaggio di testimone con la nuova agente doppiozero (Nomi) avvenga nel migliore dei modi – altri noiosissimi cumuli di scartoffie. Il risultato è che il cattivo di turno, Lyutsifer “Freddy Mercury” Safin, ne approfitta e trionfa disintegrando l’intera umanità.
La canzone “No time to die” è cantata ovviamente da M¥SS KETA.
8 . Ghostbusters: Legacy di Jason Reitman
Ma perchè traduciamo titoli inglesi con altri titoli inglesi? Ghostbusters: Legacy è in realtà Ghostbusters: Afterlife. La nostra tendenza alla myse en abyme e al postmoderno si accorda perfettamente con questo film che ignora il reboot del 2016 e riparte dalla storia originaria, aggiungendoci: a) la provincia USA profonda e sonnolenta; b) il nonno apparentemente sconfitto dalla vita e invece c) adolescenti sfigati che invece sono fantastici d) nostalgia, nostalgia a chili (un personaggio del film appassionato dei Ghostbusters originali? Check).
Quindi un brutto film? Al contrario: un film ben fatto, senza pretese di cambiare il mondo che prova davvero a spaventare con i fantasmi. Per quest’anno non chiediamo di meglio.
9 . Eternals di Clohé Zhao
Il demiurgo della Marvel Jack Kirby, negli anni 70, creò i Celestiali. Una volta arrivati sulla terra, per qualche ragione a me sconosciuta, questi esseri cosmici ebbero l’idea di piazzarci i Devianti, dei semi-mostri brutti e anche cattivi da subito in aspro conflitto con gli uomini. Visto che allo yang va sempre accompagnato uno ying i Celestiali si dissero bene di creare gli Eterni, dei semidei immortali belli e dotati di superpoteri. Per troppo tempo (letteralmente un’eternità) gli Eterni sono rimasti nell’ombra, ma fortunatamente il regista Chloé Zhao ha deciso di dedicargli un film con un cast spaziale per rendergli giustizia (c’è anche il ragazzino strano di Killing of a sacred deer di Lanthimos!). Ciò che ho preferito è che non c’è una singola battaglia finale in cui succede un casino e poi trionfano i protagonisti, bensì un’unica battaglia che va avanti per secoli. Uno si direbbe che dei semidei immortali nati milioni di anni fa abbiano di meglio da fare che combattere i semi-mostri per proteggere la razza umana, che diciamocelo sinceramente, non è che abbia fatto granché da quando è comparsa. Allora perché questo accanimento? Non l’ho capito ma il film è un successo.
10 . Morbius di Daniel Espinosa
Non avevo mai visto uno spin off di Spiderman e adesso so perché. Forse il problema non è il film, ma il fatto che io l’abbia visto soltanto *perché Jared Leto è fico* perché mi piacciono le storie di vampiri. Beh, Morbius non è la storia di vampiri che mi aspettavo. A parte un riadattamento electro rock di Per Elisa di Beethoven e i cupi ospedali in cui il piccolo Morbius passa il suo tempo da bambino (a causa di una rara malattia al sangue) non c’è niente di tipicamente vampiresco. Dove sono le tende in broccato? Morbius si muove in modo disinvolto in appartamenti terribilmente cozy. Poi c’è tutta la questione dei pipistrelli impestati che fa pensare che il regista Daniel Espinosa sia uno di quei tipi ostici a cui piace affondare il coltello nella piaga. Dove sono le tende in broccato, Daniel?
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