di Silvia Costantino
Da quando il ragazzo se n’è andato il capo sono io: sono io, il più grande di tutti, che li faccio giocare, che difendo le nostre case dai vecchi, dall’avanzare delle delusioni, dai sogni che si fanno sempre più fragili.
E ora, portato dalla fata, è arrivato uno di loro. Bolso, triste, ha le rughe che gli portano la bocca in giù, così giù che tra poco gli tocca i piedi, e la fata va in giro dicendo che il vecchio sarebbe il ragazzo.
Credergli è impossibile, e la nostra religione si fonda sul crederci. Ma un marmocchio gli leva gli occhiali e gli stira le rughe, e tutti per lui, ora, bambini volubili, vogliono insegnargli di nuovo, ricordargli come si ride.
E però lo vedo, che pensa ai suoi figli rapiti, che è triste perché non è capace di amarli, e anche se mi fa pena mi fa arrabbiare, perché tutti noi siamo qui per quella ragione. Ci hanno lasciati, dimenticati, ci hanno feriti e noi siamo arrivati qui, all’isola che non c’è, seconda stella a destra e poi dritto fino al mattino, che è una gloriosa metafora della morte, ma noi mica siamo morti, siam qua e siamo soltanto bimbi sperduti, ed è un attimo che tornaacasajack viene con noi, o peggio, rimane con uncino, e sarà tutta colpa di questo vecchio che non sa volare e non sa giocare, che non sa rispondere agli insulti. Ma siamo sempre in un film americano con una morale risplendente, e allora ecco che il vecchio si riprende e inizia a rispondermi, e lo fa sempre meglio, forte della sua statura di avvocato-consulente-ricco yuppi senza morale. Mi batte dandomi dell’essere unicellulare che non ha cervello e non sa volare. E ha ragione, almeno sul fatto del volo.
Ho tredici anni in un posto dove ci si ferma di solito all’infanzia. Mi sono sperduto tardi, la mia cresta e le mie calzamaglie hanno spaventato i miei genitori, i miei occhi a mandorla hanno creato dissidio in famiglia. Ho deciso di scappare di casa per vedere cosa succedeva, volevo che mi venissero a prendere, e ho continuato a camminare voltandomi indietro ogni passo, poi ogni due, ogni tre, ogni dieci, e siccome non c’era mai nessuno dietro di me ho continuato a camminare, seconda stella a destra ed eccomi qua, nell’Isola: troppo triste per un pensiero felice, troppo spavaldo per ammetterlo. Il capo perfetto, il più bello, il più coraggioso. Il più forte nel salto, nelle capriole, nelle acrobazie con lo skate, ma non riesco a volare. E come posso aggrapparmi a un pensiero felice se devo proteggere i pensieri degli altri?
Alla fine è lui che riesce a trovare il suo pensiero felice: vola. Forti del suo ritorno assaltiamo il galeone. Le nostre armi infantili contro le loro, vere, cattive: vinciamo noi, ma l’unico che davvero va sconfitto è il vecchio pirata, Uncino, e l’onore è mio. Salgo la passerella con la mia armatura di ossa, il mio ciuffo rosso sgargiante. Uncino mi tributa gli onori che mi spettano, è l’unico a farlo da quando è tornato Pan. È l’unico che mi riconosce. Che mi si inchina, seppur con dileggio: ma Peter si sovrappone al mio duello, mi blocca e poi deve salvare la figlia e mi lascia a combattere da solo un duello ormai non più mio: sono io, giovane, tracotante, forte e ironico quello che lo sconfiggerà. Sono io che muoio, infilzato dalla spada di Uncino, e Peter Pan mi sorregge, e io gli dico la mia verità, o una bugia, qualcosa di inutile melenso e un po’ fuori dal personaggio perché finalmente si scuota e capisca quale è il suo ruolo.
E poi si scordano tutti di me.
Mi lasciano lì sul ponte, un mucchietto di ossa e un ciuffo rosso che Pan non riesce nemmeno a vendicare uccidendo Uncino, nemmeno quando può: è troppo buono e in questa storiella con la morale americana solo i cattivi uccidono, non i buoni, e uccidono quelli come me, mezzo e mezzo, un po’ Franti un po’ Mark Lenders, il cattivo col cuore d’oro, col sorriso sghembo, che muore sussurrando parole di rammarico e redenzione, e lascia che il protagonista molli tutto un’altra volta, si riprenda i suoi bimbi e lasci il comando a Carambola, il nero rotondo che ride sempre, e torni a Londra per dire una frase stantia come ‘vivere è la più grande avventura’.
D’altra parte nessuno lo ricorda, quel finale puzzoloso e tirato via, per cui credetemi se vi dico che non è andata affatto così: nessuno muore nell’Isola che non c’è, persino Uncino è stato digerito dal Coccodrillo ma che ne sappiamo che non sia ancora lì dentro e non si scavi fuori la sua strada? Che ne sappiamo che non sia necessario tornare a combatterlo? E soprattutto, perché l’unico a fare una finaccia dovrei essere io, che senza di me quei bambini altro che sperduti, sono smarriti, finiti, dispersi?
Eccomi qua. Un triplo salto mortale all’indietro, una piroetta, mi ravvio il ciuffo e torno alla base, dove finalmente i bambini diranno il mio nome e crederanno in me:
Ru-fi-oooo.
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