Essi Vivono ST02, ep15
di Carla Vitantonio
La ragazza inglese coi capelli rossi all’hennè mi dice che era sposata con un uomo thailandese e che hanno pure fatto una figlia. Ai tempi viveva in Thailandia, a Bangkok, in una di quelle stradine sempre in ombra a causa degli immensi grumi di fili elettrici che penzolano pericolosamente dai pali di legno mezzi infraciditi dai monsoni. Si chiama Lizette. L’ho scoperto solo molte ore dopo averla conosciuta e tutto il resto. Me la immagino uguale a tutti gli insegnanti di inglese che ho conosciuto in Asia in questi anni, vent’anni e qualcosa in più: in giro per le discoteche dopo aver mangiato quel mango verde intinto nel peperoncino e nel glutammato, l’interno delle guance imbalsamato a tempo indeterminato dalla sapidità. E poi il tipo, la storia d’amore, vera o finta poco ci importa perché comunque questi due sono stati insieme per degli anni, più di dieci dice lei, e allora per davvero o per finta il tempo è quello che è e vale sempre. Quindi lei impara il Thai, si sposano, figliano, eccetera. Non le domando se sia arrivata prima la cittadinanza inglese per lui, o il divorzio. Che appunto, dieci anni sono dieci anni, ognuno si sarà fatto i suoi conti, ma nemmeno il miglior passaporto vale una giovinezza e allora salute a lui. Ho pensato una cosa razzista nel dubitare dell’amore dell’ex fidanzato-marito-padre? È che a me della purezza dell’amore non me ne frega un cazzo. Quando stavo con Luciano ero innamoratissima della sua macchina decappottabile e della sua casa a Porto Santo Stefano. Ero innamorata dei 40 anni che aveva più di me e di come mi esibiva con i suoi amici ultrasettantenni ex intellettuali della sinistra borghese italiana. Tutti a Porto Santo Stefano. Ero innamoratissima di come mi guardava mentre facevo il bagno nuda nella spiaggia deserta e privata a Porto Santo Stefano. Finì perchè mi innamorai di qualcos’altro, o forse lui partì per andare a recuperare la sua barca in Mozambico, o io partii per andare a cercare il senso della vita in uno squat londinese dove nessuna delle persone che conosco avrebbe accettato di abitare, tranne me.
E infatti.
Saluto per sempre la ragazza dai capelli rossi, prendo alcuni autobus improbabili e. Kowloon. Apro la porta di ferro battuto con il codice che mi è stato dato. È tardi nella notte tropicale, si sentono quei rumorini da tropico urbano notturno, un topo che corre lungo il marciapiede, una serranda che scricchiola e i passi di qualcuno. Si sente il rumore del caldo. Bello. Il rumore del caldo del tropico è la mia casa e non la vorrei lasciare mai.
L’ingresso è sporco che pare lo abbiano fatto apposta e la luce verde, ma perché la luce è verde? A quest’ora poi fatico a trovare l’ascensore, e quando finalmente compare, tutto spiegazzato dietro le grate di ferro, uno specchio sporco che mi aspetta, mi dico che forse potrei osare arrivarci a piedi, al quinto piano e alla mia stanza in affitto in una casa di gente che non conosco. Così mi avvio facendo lo slalom tra i gradini e i piccoli cumuli di rifiuti che emergono dagli angoli, buste di patatine sfavillanti, scatoline di quel succo di frutta che ha dentro i pezzettini di Aloe vera, gli onnipresenti preservativi e sempre questa luce verde. Il quinto piano è un lunghissimo corridoio affastellato di porte, tutte nascoste dietro le loro grate mezze arrugginite, ogni tanto un campanello, una scopa, un paio di piantine eroiche, e sulla sinistra l’interno dove dovrei entrare io che indugio un po’, dal momento che sento dei rumori da una porta vicina. Ma a quest’ora? Il rumore prosegue, come qualcuno che sega qualcosa, allora niente, forse non voglio sapere, digito velocemente il secondo codice ed entro in questa merda che supera ogni mia fantasia. Una sala da pranzo sovraffollata di cibo aperto, scaduto, odorante, sbattuto, colato, e poi scarpe, una coperta, da qualche parte una sedia, bigliettini di appuntamenti precedenti e in fondo il bagno, con la sua luce accesa e intermittente, il tappeto ammuffito bene in vista e un tubetto di dentifricio per terra. Ecco, non so se riuscirò a lavarmi. Nella vita ho visto tante cose però così non so.
Cerco nella penombra i numeri sulle stanze e finalmente vedo 7, ma come cazzo fanno a esserci sette stanze in questo posto? E poi sette stanze per un bagno solo? Ci penserò domani.
Che è già mattina.
Che cosa c’entra l’amore, diceva un autore di quando facevo teatro nei centri sociali da giovane, peraltro scrivendo c’entra senza l’apostrofo e tutto attaccato, che cosa centra, l’amore centra sempre, diceva lui, e io non lo so se centra l’amore, ma sicuramente c’entra, almeno c’entra con me, Hong Kong, l’Asia, questa piccola stanza con la luce verde-sogno-David-Lynch e tutto il resto. C’entra l’amore anche se Lizette l’inglese dai capelli rossi da vera femminista dice che l’amore romantico è un’invenzione del patriarcato e allora non c’è modo di venirne fuori, come farà Lizette senza l’amore romantico? Lei che ha sempre una parola diplomatica per tutti, che riesce con un eleganti perifrasi a farti capire se hai fatto, o meno, tutto quello che ci si aspettava da te, o se sei caduta nel girone degli indesiderabili, dei deludenti. L’amore c’entra sempre e questa stanza nel mezzo dell’Asia tropicale mi sta stretta, ancor più stretta del bagno sudicio e di quella coppia che scopa proprio dietro la parete di cartongesso, lei dice grrr e fa dei versetti deliziosi e lui se la mangia tutta e io. L’amore c’entra sempre, ricordo gli uno-quattro-quattro, pericolosissimi per la bolletta, penso che la ragazza della stanza a fianco sarebbe proprio perfetta per una chat erotica, con quella voce così inequivocabilmente femminile, mentre io. L’amore c’entra sempre e guardo quell’unica foto che abbiamo Lizette e io, come nella peggiore delle dediche da diario di scuola non ci stiamo guardando a vicenda ma guardiamo assieme nella stessa direzione, solo che non mi ricordo quale, e ci sono queste nostre facce con un sorriso enigmatico che manco la Monnalisa, chissà che cosa stavamo guardando, chissà che cosa ci avevano chiesto, chissà se avevamo incontrato un calesse e avevamo pensato fosse amore o se tu amore mio non mi riconoscerai perché sono diventato verde e non sono più io. Ma poi lei, lei si sarà resa conto che stavamo guardando proprio nella stessa direzione in quella foto, e lo saprà che si tratta di evento raro anzi rarissimo, e che dunque non dovremmo per nessun motivo lasciare che passi così inosservato, perchè vabbè che l’amore romantico è sopravvalutato, è un’invenzione del patriarcato, ma almeno una bella scopata, almeno quella tensione che cresce quando cominci a sentire che forse sì, davvero scoperai, che l’attrazione è reciproca, che la mano sulla schiena non è casuale. Se non proprio l’amore, se non va bene, almeno uscire da questa stanza verde ed entrare in quella sua casa piena di libri e di titoli che un tempo debbo aver letto anche io, e sapere che a un certo punto si precipiterà entrambe sul divano, sul letto, sul tappeto, o magari una contro l’altra in ascensore, se non c’entra l’amore, che c’entri almeno un sogno erotico, del piacere.
E invece niente, la tipa della stanza a fianco grrr, io mi guardo la foto, mattina, quasi quasi vado a mangiare una zuppa dalla signora della bettola che ho intravisto ieri. Magari succede qualcosa: un passante, uno sguardo, lo spunto per un nuovo sogno erotico, un racconto, una lettera agli amici. Magari prendo il battello e vado sull’isola di Lamma ad ascoltare il jazz in una bettolina coi vinili ammonticchiati. E mentre ascolto, magari, mi distraggo.
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