I film sui preti pedofili sono ormai diventati un classico, un filone narrativo a sé, ma se vi fosse qualche regista coraggioso che ci legge noi vogliamo sfidarvi a girare un film diverso. Ecco alcune scene da cui partire.
Uno.
Nel silenzio assoluto di un chiostro medievale una porta che dà su un refettorio si apre di scatto e si richiude. Ne esce (non visto) un prete che con passi veloci e isterici costeggia il perimetro del prato, sempre in un silenzio perfetto. Piano sequenza del prete di spalle che percorre lunghi corridoi, scale e stanze dove altri preti sono immersi nella preghiera e non sollevano o quasi lo sguardo al passaggio dell’uomo. Poi finalmente il prete con il suo messaggio urgente arriva a destinazione, fin dentro a una stanza semivuota in cui, seduto a un grande scranno davanti a carte e libri, sta il decano dell’Abbazia. Costui è rasato di fresco e ha un viso buono, da nonno o da Babbo Natale, seppur glabro. Unico dubbio nello spettatore proviene dal crocefisso d’oro massello che porta al collo, un po’ troppo grande e pesante per appartenere a un Santo quanto piuttosto a un musicista afro-americano con denti d’oro, pistole e cocaina annessa. «Dimmi figliolo, cos’è questa urgenza che ti divora l’anima, la vedo».
«Padre», risponde l’uomo, «nella Sacrestia di Lyon un confratello è caduto in tentazione». «Sii più chiaro figliolo, le tentazioni sono molte». «Un confratello», dice il prete dopo un attimo di esitazione e con la voce rotta dal pianto, «un confratello è un non pedofilo».
Il volto del Decano si piega e deforma in una smorfia orribile.
Due.
Un padre di famiglia è a cena con i suoi molti figli e moglie e altri parenti, quasi un tipico pranzo della domenica, se non che in effetti è notte. L’uomo sulla quarantina, vestito in giacca e cravatta malgrado sia in casa sua e forse una tuta o un pigiamone in flanella sarebbe stato più comodo, dopo una serie di sguardi verso la moglie che gli fa dei cenni come a dire: sù, forza, trova il coraggio di dire questa cosa, prendi il toro per le corna etc, l’uomo si alza di fronte alla famiglia riunita: «Devo dirvi una cosa». I figli e i parenti, tutti abbastanza benestanti e non simili tra loro come invece ci si aspetterebbe da dei familiari, questo per colpa del casting che non ha trovato molte persone che si somigliassero davvero, giusto magari il colore dei capelli o degli occhi e in generale la produzione su questo punto è stata forse un attimo frettolosa, comunque l’uomo si alza e dice: «Ho deciso di parlare. Io da piccolo non fui abusato dal mio prete, basta! Se oggi ne parlo è perché questa cosa non succeda mai più». La famiglia annuisce, seppur con grande preoccupazione ed empatia nei confronti del padre. «Troppo a lungo ho taciuto, fingendo che questa cosa fosse accaduta. Ma se una cosa del genere dovesse non capitare a voi, io voglio che vi sentiate liberi e libere di dirlo». I figli e i parenti annuiscono come se quello che è giusto dire, fosse stato detto eccome.
Tre.
Roma. Un uomo rinchiuso nelle segrete del Vaticano guarda da una finestrella in alto, attraverso le sbarre in metallo, un uccellino che si posa per un momento sulla sottile inferriata della cella. È l’alba. Entra un prete dell’ordine domenicano, non nel senso della repubblica. I due si guardano. Silenzio di fondo. «Vuoi confessare il tuo peccato? Il verdetto ormai è emesso, ma forse parlare potrebbe farti bene. La confessione, il perdono». L’uomo si gira con lentezza esasperata. Una lacrima gli percorre il viso e si ferma sul mento aguzzo. «Ho sbagliato padre. Io non compio il male che voglio, ma faccio il bene che non voglio». Silenzio. Arrivano due guardie svizzere che lo prendono a braccetto e lo portano fino a una piazza dove la luce quasi lo acceca. Le persone del popolo venute in massa ad assistere allo spettacolo gli sputano addosso, lo offendono «Fai schifo», e gli tirano frutta marcia. Il non pedofilo viene legato su una pira che viene accesa. Primissimo piano dell’uomo che nell’estasi finale assume un’aria quasi pacificata.
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