All’epoca avrei voluto dei denti azzurri, o verdi, o al limite arancioni. Pensavo che avere dei denti bianchi per tutta la vita fosse quanto di più noioso potesse capitarmi. Che era ingiusto: le unghie continuavano a crescere, come i capelli, e si potevano colorare, accorciare, schiarire. Solo i denti, quanto di più duro e utile il corpo umano sapeva produrre, era contingentato e fisso.
Non riuscivo a capire mia sorella che odiava il dentista: per me era uno scultore. Il sibilo tranquillo del trapano, l’odore di disinfettante, il celeste dei copriscarpe in plastica: fuori tutto era confuso e sporco, ma sulla poltrona, con quelle luci croccanti puntate sulla bocca, non c’era niente che non fosse ordinato e pulito.
Quando mi cadde l’ultimo da latte, chiesi ai miei di portarmi dal dentista scrivendo su un taccuino, perché quelli nuovi mi avevano rovinato la voce e sentirmi era insopportabile: «Non parlo così» continuavo a ripetere davanti allo specchio, «non è la mia voce». Volevo dire una cosa semplice, “ho fame”, “guardiamo un film”, ma veniva fuori un latrato insopportabile, da vecchio cane. Oppure, ancora peggio, volevo essere gentile e sembravo incazzato, “come stai” assomigliava ad un’accusa, “cos’hai fatto ieri” all’interrogatorio di un nazista.
Il dentista controllò con scrupolo, senza ridere: molari, premolari, canini, incisivi, superiori e inferiori. Si lasciò convincere a farmi una panoramica, fece uscire mio padre e mi infagottò in un gilet di piombo: «Cosa speri di trovare?» Scossi la testa e allargai le braccia. Lui annui. I miei denti erano perfetti.
«A volte ci vuole un po’ ad abituarsi. I denti da latte sono più piccoli, si ha l’impressione di avere troppa roba in bocca. Ma qual è l’alternativa? L’agenesia dentale, un adulto con in bocca i denti di un bambino», guardò fuori dalla finestra, «quello sì che sarebbe un disastro». Io non dissi nulla, ma non ero d’accordo. Non sarebbe stato affatto un disastro, il mio era un disastro. Il voler dire così tante cose e l’essere ridotto a gemere come una porta da oliare, costretto a portarmi dietro taccuino e matita. Se solo avessi potuto parlare, allora sì. Avrei potuto ringraziarlo, chiedergli perché era diventato un dentista, fingere disinvoltura e tornare a casa, uscire la sera con Leo e Camilla, fare un giro in centro. Nessuno si sarebbe accorto che non avevo mai idea di cosa succedesse intorno a me, né di quanto fossi costantemente teso perché non sapevo dove tenere le mani: avrei parlato di calcio, della scuola, delle persone che volevo baciare. Con gli anni mi sono reso conto che tutti parlano per nascondere, per non confessare di non sapere cosa sia giusto o sbagliato: la voce serve. Pensavo di essere sbagliato, ed ero solo giovane. Pensavo che dopo la maturità mi sarei iscritto a medicina e magari un giorno sarei stato io quello con il trapano in mano, a scrutare nelle bocche di sconosciuti, a modellarne i denti.
Si avvicinò di nuovo: «diamo un’ultima occhiata, poi per me puoi andare». Aprii la bocca e lui toccava ogni dente, nessuno che si smuovesse di un millimetro. Se ci ripenso, ancora oggi, a distanza di così tanti anni, non so perché chiusi la bocca, iniziai a succhiargli l’indice ed ebbi l’erezione più rapida di sempre. Non disse nulla. Rimanemmo così per un attimo poi lasciai andare e lui continuò con l’altro lato della bocca. Si tolse i guanti: «Mi dispiace, io non vedo cosa potrebbe cambiarti la voce, quassù» e, per quante volte ci ripensi, non ricordo se buttò un’occhiata in mezzo alle gambe o se invece me lo sono solo immaginato, a volte anche un paio di volte al giorno, disteso in camera mia.
Vorrei poter dire che la voce migliorò da sola, che ero un adolescente che stava crescendo: il testosterone che faceva il suo lavoro e le mie corde vocali ubbidienti. Lo pensavano mia sorella, Leo e Camilla, i miei. Secondo loro, dopo qualche mese, la voce si stabilizzò in un bordone scuro, da uomo, che non si spezzava e non gemeva. Bugiardi. Mi avevano trasformato, ero diventato un altro e nessuno aveva chiesto il mio parere o il mio permesso. Un po’ alla volta, smisi di usare il taccuino, parlavo il meno possibile e quando lo facevo mi sforzavo di non fare caso alla cacofonia di suoni che tiravo fuori. Più parlavo, più la voce che avevo prima si faceva sottile, diventava leggera, come il ricordo di un ricordo. Non passava mai, però, la sensazione che qualcuno mi avesse spostato, messo sbieco in un mondo che non era mio.
Quando tornai dal dentista, un anno dopo, mi chiese: «Hai ritrovato la voce?» e sorrise. Io arrossii e mugugnai, scrollai le spalle. Mi misi seduto e aspettai che succedesse qualcosa. Non successe mai nulla: lui invecchiò, andò in pensione e fu sostituito da altri dentisti, più giovani. I copriscarpe passarono dall’azzurro al verde e poi di nuovo ad un azzurro più scuro. I miei denti si cariarono, spuntarono quelli del giudizio e furono estirpati. Allo specchio li vedevo diventare sempre più gialli. Non pensavo più così spesso a com’era prima e, a volte per mesi interi, non ci pensavo per niente. La vita è la cosa peggiore che ci possa capitare. Ti lascia la terribile sensazione di aver perso non per colpa tua, ma perchè qualcuno ha barato. Alle volte mi chiedevo chi e perchè, ma non sapevo andare oltre.
Ormai parlo, do consigli e racconto storie divertenti, e dietro ogni parola sonnecchia un silenzio più giovane che mi osserva come l’ombra di quello che avrei potuto dire e non ho detto. Ho la sgradevole sensazione di aver vissuto la vita di qualcun altro. «Cosa sarei potuto diventare, dottore?» chiedo al dentista per il mio ottantesimo compleanno e lui fa finta di nulla, sorride pensando a una demenza. Non capisce che invecchiare è una continua riduzione delle alternative possibili. «È vero che esiste lo smalto colorato per i denti?» gli chiedo. Mi guarda sorpreso mentre si infila i guanti, un dito alla volta, pronto per iniziare. Non sono quelle le domande che vorrei fargli, in ogni caso.
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