di Lavinia Ferrone
Curva tutto sulla destra, inchioda, spenge il motore.
E ancora un’altra estate arriverà
E compreremo un altro esame all’università
E poi un tuffo nel mare
Nazional
– Passano ancora sta canzone alla radio zio cane.
Off.
Tra le intermittenze d’oro delle foglie di pomeriggio ad agosto uno scroscio di cicale faceva assumere alla rarefazione dell’aria la pesantezza delle lunghe attese. La aspettava nel parcheggione riflesso sulle finestre del retro, agli uffici della sede della Serendipity Srl. Il cappellino creava un’aureola di sudore intorno alla sua testa tanto da fargli venire il prurito disinnescato dall’incastro dell’indice tra la tempia e la visiera di lato alternato al palmo che omogeneizzava su tutta la fronte quelle sacre gocce di perle, concentrato di insicurezza e tensione dissimulate da commenti estemporanei sulla propria vita, come se non fosse quella in atto ma un qualcosa fuori da sé da descrivere con distaccato scetticismo.
Passata più di mezz’ora. Online.
< Dove minchia sei?> Doppia spunta grigia. Offline.
Dovevano andare a fare un sopralluogo alla location del matrimonio per gli ultimi dettagli, di cui fondamentalmente a lui importava poco ma per i quali apparentemente o per meglio dire letteralmente, lei sarebbe potuta impazzire, avrebbe potuto dare di matto, con la sua vocetta nasale avrebbe potuto iniziare a scuotere forte i boccoletti biondi, strizzando forte gli occhietti azzurri e con in una mano il cellulare portare i pugni alla testa, stretti così forte da far diventare quelle nocche sottili tutte gialle e infine come un conato smorzato dal pianto rotto in gola dire ‘Ho detto camelie non gardenie! Camelie cazzo raga! La gardenia fa troppo duemilaeotto ma siete fuori?!’.
Si stavano per sposare, glielo aveva chiesto lui durante un concerto, lo aveva fatto perché la amava, perché sapeva che a lei piacevano le cose in grande e avrebbe fatto qualsiasi cosa per accontentarla. Del resto, l’aveva conosciuta che era già così, era già Chiara Ferragni. Era già diventata quella nube fungoide di detriti vorticanti nell’aria, pulviscolo di macerie, ossa e vetri rotti, molari d’oro e passamontagna leopardati, quella nube tossica di glitter e tacchi a spillo che si era alzata dopo il clik detonatore di The blond salad. Aveva deciso di amarla per quello che era, quel nulla di qualcosa montato pezzo per pezzo seguendo l’ordine numerico del libretto di istruzioni.
< Amo ci vediamo direttamente lì sono in riunione>.
In riunione. Se non l’avesse conosciuta così bene da sapere che per lei scopare era diventato, per usare un termine che aveva imparato da poco, obsoleto. Un momento. Prendeva forma nella sua testa, impastata come un pezzo di plastilina, la figurina fragile come un grissino di lei a cavalcioni sul cazzo di uno dei suoi collaboratori presunti omosessuali mentre dalla sua bocca fuoriusciva un rivolo di sperma del receptionist dell’ufficio.
< Ok>.
Riaccese il motore, retromarcia, prima, diretto verso la location.
Chiara arrivò cinguettando delle cose sui tappeti in sala chilling. Lui stava seduto su un muretto a secco strappando via l’avanzo di cartina lunga chiusa da una leccata amara mentre i polpastrelli di indice e pollice stringevano umidi il filtrino fatto col biglietto da visita di ‘Mencocci & figli. Gommista’. Guardava i quadricipiti nervosi di lei agitarsi, piccoli e tesi come le cosce di una rana mentre alzava la voce per dire cose del tutto normali, si agitava tanto oramai da mesi, lui quasi si sentiva in colpa di averle chiesto di sposarlo, gli dispiaceva pensare di averle arrecato tanto stress.
La guardava discutere coi capelli annidati in una crocchia, tirarsi su gli occhiali da sole col mignolo mentre con fermezza decretava di quanti metri quadrati si dovesse comporre ogni spazio che andava infine a completare la terrazza in cotto rovente e cosa sarebbe dovuto avvenire sopra ognuna delle singole piastrelle quadrate che, congiunta alle altre, non era altro che il frutto del lavoro di manovali che avevano a loro volta eseguito il progetto di un architetto che aveva messo in piedi uno studio privato dopo anni di gavetta e prima, prima ancora, gli anni dell’università, la sua laurea, i sacrifici della sua famiglia per arrivare a progettare quella villa lì dove loro si trovavano e avrebbero consumato, letteralmente, consumato. Perché di questo si trattava no. Consumo di tempo, soldi, cibo, consumo di tessuto, energia elettrica, vino. Quanto avrebbero consumato le industrie di acqua gassata per gassificare le casse di Perrier che sarebbero state servite durante il party. Forse il caldo, forse la canna, i discorsi intorno a lui erano talmente distanti da farlo sentire di sottofondo, scomposto come uno sciame di mosche. La caviglia del piede destro poggiata sul ginocchio sinistro scosso in su e giù dal movimento incontrollato della gamba che facendo perno sulla punta sfogava una tensione latente, intanto con la mano sinistra si accarezzava i peli radi che coprivano il polpaccio. I rami del susino sotto al quale si trovava seduto, muovendosi, creavano un leggerissimo ricircolo d’aria, minimo, ma in grado di muovere i lembi della sua camicia hawaiana. Improvvisamente tutta insieme sentì che gli cadeva addosso la sensazione acida che si prova quando ci si sente un coglione. Imbottigliato dentro alla botta del cannino, scisso tra la pulsione indomabile di voler dire la sua su sta cerimonia e l’impossibilità di farlo data la completa secchezza delle fauci e la quasi incapacità di portare a termine un pensiero. Avete presente quell’istante di indecisione che si ha quando si guarda un imbuto intasato e non si sa se aspettare che il liquido defluisca o se fare qualcosa per farlo defluire? Lui era esattamente quella cosa, era l’imbuto, la persona che usa l’imbuto, il contenitore sotto e il liquido impastato che non defluisce, era tutte queste cose insieme.
– Amo?! Amo?! Oh mi sénti?! Ma séi fuori? ci séi? Prònto?
Lo stava chiamando, talmente spazientita da avere la nota del pianto a intonarle le vocali, le tremava la voce
– Allora, anche se non te ne frega un cazzo mi par di capire comunque niente quando noi poi siamo qui, tu mi alzi il velo per darmi il bacio, quindi siamo qui, due, trè, quattro, arriviamo qui, mi alzi il velo, bacio e Buona notte fiorellino a palla
– Buona notte fiorellino?
– Amo buongiorno, sì è la nostra canzone cioè
Iniziò prendendo fiato dalle narici tenendo la bocca stretta, c’aveva una specie di tremarella strana alle mandibole
– Ma no amo per me mettiamo Amore che vieni amore che vai
– Ma dai ma ma ti pare?! Quella canzone è una presa a male amore
Le andò vicinissimo, non le era così vicino da mesi. Una distanza così ravvicinata, forse erano le canne, forse era la realtà. La guardò dritto in faccia, senza schermi nel mezzo, senza filtri, ebbe la sensazione forte di vederla per davvero, i suoi incisivi vagamente distanti tra loro e un po’ sporgenti, aveva una cicatrice di varicella alla destra del mento. Si poteva intuire il correttore nude increspato sulle palpebre, come strati e anni di storia che le si erano depositati addosso. Come il contenitore di se stessa rimasto immobile per tutti quegli anni e, ancora, per gli anni a venire. L’avvicendarsi di secoli le incipriava il nasino. Filtri che per centinaia di anni avevano plasmato il suo viso che per sempre avrebbe ormeggiato nel porto sicuro della storia. Era quello il momento. Dove si erano ammucchiati quei granelli di sabbia che un tempo, prima che si sgretolassero, erano i pezzi della loro storia, quand’è che si erano amati, poteva giurarci che si fossero amati, del resto lui la amava ancora. Questo non poterle comunicare che ‘Chiara ti amo, vorrei baciarti perché davvero lo voglio’. Dove si trovava esattamente il punto in cui le macerie del loro amore erano rimaste a farsi erodere dal vento della fame.
‘Chiara, dove sei?’
Le avrebbe voluto prendere le gote tra le mani e con un sorriso scherzare sul fatto che l’avrebbe voluta accontentare.
E mentre pensava a questo, una voragine alla bocca dello stomaco gli si aprì a tal punto da inglobarlo ferocemente dentro alla falla di se stesso, così forte da farlo precipitare a tutta velocità nella bocca di lei che arrabbiata gli spiegava di quanto fosse schifosamente IM-PO-SSI-BI-LE, così lo disse, scandendo le sillabe, impossibile, mettere Amore che vieni amore che vai.
Deglutì col cuore tutta la secchezza che poteva, le cose intorno si erano ormai del tutto scomposte per cui solo una faccia del cubo mostrava tutti i quadratini dello stesso colore, bastava girarlo da un lato qualsiasi per srotolare tutto.
Guardò l’orologio.
E ancora un’altra estate arriverà
E compreremo un altro esame all’università
E poi un tuffo nel mare
Alzò il volume della sua testa
Nazional popolare!
Pensò che fosse l’ora di un kebab.
ilaria baldo dice
fantastico