(Due uomini a torso nudo davanti a un muro. Sono in ginocchio, uno dà le spalle all’altro. Vediamo solo le loro schiene. La posizione è scomoda, l’uomo più vicino al muro si alza e prende un cuscino, poi ritorna al suo posto. Non si guarderanno mai.)
– Pensi che l’arte possa salvarci?
– Salvarci da cosa?
– Da quello che succede, da quello che siamo diventati.
– Perché, tu non sei contento di chi sei?
– Non so esattamente chi sono, o cosa. Perché tu lo sai?
– So in cosa credo.
– Non è la stessa cosa.
– Non sarà la stessa cosa ma ci si avvicina moltissimo.
– C’è differenza tra quello in cui credi e le azioni che fai.
(Prende due pennarelli, uno blu, uno rosso. Li guarda, poi sceglie il rosso e porge il blu all’altro.)
– A me sembra di andare avanti come se non dovesse mai succedere niente.
– Cosa dovrebbe succedere.
– Non che debba succedere un fatto straordinario, mi basterebbe una foglia portata dal vento o un aquilone incastrato tra i rami di un albero.
– Hai aspettative altissime.
– Hai capito cosa intendo.
– In realtà non ho capito niente.
– Un movimento, un segno, un tocco.
– Continuo a non capire.
– Vorrei solo riempirmi gli occhi di bellezza.
(Appoggia la punta del pennarello sulla nuca dell’altro uomo, esita alcuni secondi, poi preme sulla pelle con decisione. La mano scivola in basso sulla schiena e traccia una riga verticale, rossa, lungo la colonna vertebrale, poi curva a destra all’altezza del coccige. Il gesto è lento ma continuo, fluido, morbido.)
– Quale bellezza. Gli occhi si abituano presto all’oscurità. Basta un minuto, due al massimo, le ombre diventano rassicuranti, il ronzio di una mosca ti fa compagnia, il metallo della forchetta si intiepidisce al contatto con la tua mano.
– Non mi piace l’oscurità. Non mi piace quando chiudo gli occhi e la luce e il buio sotto le palpebre si confondono in cerchi e in ovali, si intrecciano, si avvicinano e si allontanano o forse diventano più piccoli e più grandi, non l’ho mai capito, sembrano enormi e un attimo dopo minuscoli. Mi avvolgono, mi stordiscono, non so più dove mi trovo, non so più nemmeno se sono ancora io.
(La sua mano è incerta. Traccia sul muro una linea verticale, blu, e poi in basso curva a destra. Si ferma. Ascolta quello che l’altro sta disegnando sulla sua schiena. È un movimento lento ma continuo, fluido morbido.)
– Una volta ho cercato su google “accendere lampadina con limone”. Guarda che si trova di tutto: tutorial, istruzioni illustrate, spiegazioni scientifiche e teorie del complotto, installazioni, qualcuno ha fatto la stessa domanda anche su yahoo answers.
– E cosa c’entra adesso.
– Come cosa c’entra. Doveva essere il mio approccio positivo e propositivo al dibattito, insomma, uno spiraglio di luce, l’energia che si muove, la contrapposizione all’oscurità. Un movimento, un segno, un tocco.
– Sei uno stronzo. Oppure sei fragile e spaventatissimo.
– L’istinto prevale sempre sulla ragione. È la sopravvivenza.
(La schiena è lucida, tesa. I pori assorbono il colore e la pelle in alcuni punti si irrita.)
– Sarebbe bello.
– Sarebbe bello cosa.
– Riempire gli occhi di bellezza. Pensi che cambierebbe qualcosa?
– La mattina non uscirei di casa rassegnato. Ma forse non è nemmeno rassegnazione. È qualcosa di più lacerante ma allo stesso tempo imperturbabile, che ti corrode lasciando intatta la superficie, che anestetizza i sensi e la percezione ma ti fa restare vigile, tutto è coperto di neve che si scioglie ed è marrone e grigio e sfiancante.
(Il muro è un groviglio di linee e curve. La schiena è un groviglio di linee e curve. Completamente diverse e assolutamente uguali.)
– Non lo so.
– Non sai cosa?
– Se l’arte può salvarci. Forse può farci respirare.
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