Un telefono squilla. È un suono impertinente che non si esaurisce in tre o quattro squilli ma insiste per almeno un paio di minuti. È un suono pressante e convulso. Ma da dove viene? Io ho solo un cellulare e non squilla così, e poi ce l’ho in tasca, in casa non dovrebbero esserci altri telefoni, anzi sono sicura che non ci siano altri telefoni dato che abito da sola. Allora entro nelle stanze, apro i cassetti, mi stendo a terra per guardare sotto i mobili, controllo dietro i cuscini del divano. Niente. Un telefono squilla eppure non c’è alcun telefono. Mi fermo e ascolto. Lo sento. Lo sento soffocato e allo stesso tempo netto, distinto, come sepolto sotto una catasta di libri. Lo sento lontanissimo e allo stesso tempo accanto al mio orecchio. Lo sento deciso, nel muro, come se squillasse nell’appartamento dei vicini. Il problema è che abito in una villetta indipendente e non ho vicini di casa. Che poi dire villetta è un po’ esagerato, in realtà ho una stanza, due bagni, uno studio, una cucina con salone, tutto su un piano, è una bella casa, non troppo grande ma funzionale come dicono nei programmi televisivi di ristrutturazioni, si sta bene, il quartiere è tranquillo, e soprattutto non ho vicini di casa.
Eppure non è la prima volta che sento un telefono squillare. Un telefono che non c’è, intendo. Un telefono che sembra squillare nel muro.
Prima di trasferirmi stavo in un condominio e lì sì che avevo vicini di casa. Quasi tutte le stanze del mio appartamento confinavano con altro condomino o nucleo familiare. In più c’erano gli inquilini del piano di sopra e quelli del piano di sotto. Insomma, ero circondata da vicini di casa. E quando sentivo un telefono squillare, un telefono che non fosse il mio intendo, pensavo fosse quello del vicino. Quel trillo incessante poteva venire dalle pareti o dal soffitto o dal pavimento. Era plausibile. Per farla breve, sono anni che sento questo maledetto telefono squillare ma alla fine mi ci sono abituata. Insomma, le prime volte era strano, lo ammetto, ho avuto anche periodi di paranoia, credevo di essere spiata, «qualcuno di certo mi controlla», dicevo, «è come in quella serie tv dove c’è la macchina che vede tutto, che sorveglia tutti». Voi starete ridendo lo so, penserete che mi stia inventando una storia stramba, ma non è così, io lo so quello che ho sentito e che continuo a sentire, nemmeno gli amici mi danno credito, dicono che ho un udito finissimo. Per carità, è vero che ho un udito finissimo ma questa è un’altra cosa. Poi quel momento di fissazione è passato e non so come non ci ho fatto più caso, agli squilli intendo, me ne sono dimenticata. Come se le mie orecchie avessero imparato a filtrare quel suono. Se una cosa non la posso vedere non c’è, non esiste. Ma qui, in questa casa, dove non ci sono vicini dall’altra parte del muro, ammetterete che la questione è piuttosto inquietante.
E poi che suono? Non si tratta di una moderna suoneria personalizzata, non il trillo metallico dei Cordless, è qualcosa di più antico, che riecheggia nella memoria, non il tritritri vibrante del Sirio Sip rettangolare bianco e azzurro, quando dico squillo intendo proprio un driiiiin, con la “i” prolungata, sto parlando proprio di lui, l’unico, l’apparecchio per eccellenza, il Bigrigio nella classica versione da tavolo col disco per comporre i numeri.
Mia nonna ne aveva uno così. Lo teneva in uno stanzino accanto alla cucina, stava su una mensola subito dietro la porta. Me lo ricordo bene quello stanzino, era un corridoio freddo, stretto, non ci si passava in due, e poi non si vedeva nulla, c’era una luce gialla e pallida. Nessuna finestra. L’elenco telefonico stava sempre accanto al telefono. Non ho mai visto nessuno aprire l’elenco telefonico, i numeri importanti erano scritti su un foglietto attaccato al muro. Il foglietto è stato lo stesso per anni. Poi lungo la parete c’era un enorme piano in marmo che occupava quasi l’intera stanza. Nei giorni di festa la nonna nascondeva lì i dolci che avremmo mangiato a tavola tutti insieme. Metteva i piatti uno accanto all’altro, in fila, e li copriva con i tovaglioli. Allora io e i miei cugini, avremmo avuto cinque o sei anni, o anche dodici o tredici, ci intrufolavamo dietro la porta, alzavamo i tovaglioli e rubavamo una zeppola o un pezzo di pastiera e ci ingozzavamo ridendo, con lo zucchero che ci si attaccava sulla faccia. Poi il telefono squillava, qualcuno chiamava per fare gli auguri di Natale o di Pasqua o di un’altra ricorrenza, e noi venivamo colti in flagrante.
Ecco, io quando sento squillare quel telefono che non vedo (o che ho perso o che non riesco a trovare) penso a quel momento, a quella sensazione di casa, a quello zucchero sulla faccia. Chi è che mi cerca, da quale luogo o tempo? Cosa vuole dirmi, perché continua a chiamarmi? E come faccio io a rispondere? Perché lo so che quelle telefonate dicono il mio nome e che io ho smesso di ascoltarle. Perché se una cosa non la vedo o non la ricordo forse esiste lo stesso. Un telefono che squilla nei muri, un gatto impaurito in un appartamento minuscolo, un pozzo in un villaggio tra la Corea del Nord e la Corea del Sud. Allora entro nelle stanze, apro i cassetti, mi stendo a terra per guardare sotto i mobili, controllo dietro i cuscini del divano. Aspetto.
Una volta su una rivista online ho letto un racconto che s’intitolava La donna che viveva nei muri, l’aveva scritto una ragazza fiorentina, mi chiedo se anche lei abbia mai sentito un telefono squillare nel muro.
Bello!