«I rapper, meglio non conoscerli», dice Scara alla terza birra. Si chiama così per via di un nomignolo adolescenziale: scarafone. I motivi sono intuibili, ma ora, superati i trenta, si porta a letto una tipa a serata. Che poi abbiano quindici anni meno di lui è relativo: trovare flygirl coetanee è sempre più raro. Superati i venti o ventidue anni, nel guardaroba tengono giusto le Stan Smith. Noi ci chiediamo se questo sia un bene o un male, ma mentre io rifletto lui agisce.
Scara è uno della vecchia scuola, con addosso la stessa fotta della prima ora e i baggy jeans: zero rave, zero gabber sopra il colle, soltanto b-boy.
«I rapper, brutta gente» continua stappando la quarta birra. Stiamo seduti su un muretto, una domenica di settembre, come quando da ragazzini saltavamo la scuola per andare a dipingere muri, fare freestyle o scrivere rime. Al microfono Scara era un panzer, stile Notorious BIG. Avevamo messo in piedi un piccolo progetto, destinato a fallire presto per divergenze d’opinioni. Per me il rap era solo New York. Suono grezzo. Ero un radicale alla Dj Gruff. Lui invece amava Warren G e Nate Dogg tanto quanto il Wu-Tang Clan, Nas o gli EPMD. A me della Costa Ovest potevi far ascoltare al massimo Black Sunday dei Cypress Hill, e quando mi propose di inserire il sample Nuthin’ But A G Thang sul mixtape che stavamo preparando, finimmo per litigare. Ci accordammo sui Gravediggaz. Inutile dire che eravamo giovani e le nostre erano prese di posizione e non scelte stilistiche.
«Fanculo i rapper!» dice ancora facendo un tiro da tre verso il cassonetto del vetro. La bottiglia si infila perfetta con un gran clangore di vetri rotti. Si è fatta mezzanotte, il film è finito da un paio d’ore e noi stiamo lì, a bere e riflettere in silenzio sulla pochezza degli affreschi che ritraggono i nostri eroi adolescenziali, anche se oggi brucia meno di quindici anni fa.
«Eppure per un attimo ce l’aveva quasi fatta» dico cercando l’attenzione di Scara.
«Solo per un attimo» sottolinea lui.
Mi ricordo di quando suonarono i Public Enemy, e andammo Milano senza neanche sapere come ci si arrivava. Dopo il concerto provammo e dare in giro il nostro disco. Avevamo adocchiato un giornalista di Aelle con cui riuscimmo a parlare e sbronzarci. Ci disse che stava lavorando a un libro sul Rap Italiano, perché si era stufato dell’approccio talebano che si stava diffondendo e bisognava chiarire le cose. Ci parlò della grande incomprensione del Rap in Italia, della sua incubazione nei centri sociali e della volontà tutta italiana di mantenere un’attitudine ora punk ora politica, o della necessità di una presa di posizione nell’eterna lotta underground-commerciale come fosse questione di vita o di morte.
«Se il rap italiano sono solo le posse, allora gli Assalti Frontali e i 99 Posse stanno facendo accanimento terapeutico. Ma il banco degli imputati è sempre più affollato». Noi capivamo la metà di quello che diceva perché della scena italiana conoscevamo poco, ma ci sembravano cose sensate. «Se si vuole rimanere anacronistici a vita bene, sono scelte, ma è un suicidio musicale che non deve coinvolgere tutti». Sembrava stesse parlando a me. Tornammo a casa confusi e un po’ amareggiati.
Un anno dopo ci arrivò una sua lettera in cui diceva che il mixtape era un prodotto grezzo, e ci allegava una copia firmata del libro, sperando ci aiutasse ad andare oltre le nostre visioni. Prima ancora di leggerlo appesi il microfono al chiodo. Scara invece, anche se adesso non fa più rime, non si può dire che abbia mollato, e sta nel giro a organizzare Jam Session e concerti.
«Quante volte l’hanno ucciso?» gli chiedo.
«Direi che questa è almeno la terza» mi risponde, «Prima Suge Knight, poi un fantomatico killer, ora Benny Boom».
«La vittima è la musica, l’accusa è di omicidio» canticchio.
«Fanculo i rapper e fanculo i registi» grida Scara alzando l’ultima birra.
Lo raggiungo con la mia: «Alla musica rap» faccio, «a tutte le sue contraddizioni, e a tutto il suo fascino».
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