di Rebecca Moore
«Come sta tua madre?» le chiedevano ormai tutti, dopo l’incidente.
«Bene, sta bene,» rispondeva lei.
Si sentiva calare poi il silenzio, e questo quasi le piaceva, ché davvero lei non aveva altro da dire. Anche se sapeva che gli altri avrebbero volentieri aggiunto qualcosa.
«E come va il lavoro?»
«Sai, il solito.»
E sorrideva. Non voleva mai apparire scortese; ecco il suo trucco. Si otteneva sempre tutto con la gentilezza. Ma più che altro voleva rimanere con se stessa, fra il cuneo di quei suoi pensieri e il suo silenzio, e non lasciarsi perforare dalla curiosità; dalle illogiche interferenze, da quel male delle parole altrui.
Da poco avevano preso un cane. Era tutto criniera, nero, con la coda lunga e gli occhietti viola, e se lo pettinavano sembrava avesse fatto la permanente; e aveva una sua dignità signorile, benché non fosse altro che un cucciolo di creatura. Mangiava solo se lo imboccavi e si vergognava a fare i bisogni davanti agli sconosciuti. E gli avevano dato nome Biglia. Gli occhietti gli roteavano dal basso verso l’alto, se ti appoggiava il muso sulla mano, in cerca di carezze.
Il giorno che arrivò, lei si disperò; mentre i suoi erano contenti, sembrava si fossero tolti un peso. Si convinse allora che avesse fatto bene ad insistere, se li vedeva così alleggeriti; per troppo tempo li aveva visti ridere poco, solo per le occasioni. Una partita a carte; una rara festa. E si battibeccavano che era uno sfinimento. Si fraintendevano. E lei faceva da tramite, l’unica che sapeva interpretare la lingua di ciascuno. “Non vi conoscete più?” si chiedeva. E si sentiva come un vecchio gatto che spia alla finestra, e guarda le mosse dei padroni, esasperato.
Ma una mattina, prima di andare al lavoro, andò a salutare sua madre in cucina. E la trovò a farsi il caffè, con la sua vestaglia rosa scucita; suo padre di spalle, su una sedia.
«Non sei andato a lavoro, papà?»
Biglia le saltò sulle ginocchia. Sua madre, in quel momento, rovesciò l’intera macchinetta del caffè sul marmo del lavabo, con un gesto improvviso che fece fare al cane un salto indietro; contrasse la mascella e strizzò gli occhi; con la mano sul viso, tentava di ricacciar indietro le lacrime, mentre cercava uno straccio per pulire, che non c’era.
«Devo fare tutto io! Non lo voglio questo cane, devi rimandarlo indietro. Mi segue come un’ombra…»
Biglia le ficcò le unghie nelle gambe e lei si accucciò per cercare di sfuggire alle sue feste.
«Mamma, pensavo fossi contenta…»
Suo padre aveva una faccia consumata e fissava fuori dalla finestra, forse per non guardare il cane; che, di prima mattina, voleva giocare e aveva preso a correre intorno al tavolo con una delle sue pantofole in bocca.
«Non possiamo rimandarlo indietro ora…» insistette «si è affezionato.»
«Vediamo,» disse sua madre. «Vediamo come mi sento domani.»
Finì di pulire. Suo padre si era alzato e aveva cominciato a infilarsi le scarpe da lavoro. Tutto avrebbe voluto fare tranne che seguirlo, si sentiva stizzita da quell’ombra, e che il desiderio ora di dire qualcosa la teneva lì – “che bel gioco,” pensò – ma tanto, sua madre, in quelle condizioni, lo sapeva non sarebbe stata in grado di ragionarne. Allora uscì dalla cucina e, mentre si allontanava, sentì che diceva qualcosa; parlava di lei, ne era certa. Ma “No”, pensò, “non voglio rimanere ad ascoltare”; non sapeva, tanto, che quelle lamentele ormai mature, avevano raggiunto il punto d’ebollizione, e che dovevano ora fuoriuscire, covate per tanto tempo, anche se solo poco prima eran state cose di poco conto, irrisolte? Ed ecco, il momento era giunto. L’incidente non c’entrava; o almeno, non era solo l’incidente. Nella loro vita doveva esserci sempre una scusa, una spazzata di scopa più decisa, per far sì che i problemi
galleggiassero in superficie.
La collera la indurì; guidava, e sentiva le sue sforbiciate. Si lasciava andare a questo pensiero; al fatto che sapeva sarebbe dovuta stare a digiuno tutto il giorno. Era una resa. E ai bordi degli occhi le stavano appiccicate le lacrime, che non volevano scendere, e che pizzicavano. Non era passata dal bar a prendere un altro caffè e timbrò il cartellino in anticipo.
«Come mai qui così presto?»
Si era girata di soprassalto, ché non aveva sentito arrivare nessuno, sicura di esser ancora sola, nell’edificio. La collega stava chiudendo il cassetto di una delle scrivanie. Riprendendosi dalla sorpresa, non le rispose: era l’ultima delle persone con la quale avrebbe voluto parlare quella mattina. Disse solo: «Buongiorno a te.»
Si diresse verso la sua postazione, con l’idea che sarebbe tornata per quel caffè.
«Sai, ti volevo dire…»
La collega l’aveva seguita. E la guardava con un certo fervore, quell’aspetto di alcune donne che, superati i quaranta, sentono il bisogno di dar battaglia, e si rigirava fra le mani un oggetto invisibile, frenetico. E che bella gonna indossava quella mattina.
«L’altra sera sono stata a cena con un amico del… sai, di quel povero signore.»
Una punta d’aceto in un bicchiere di vino; la frusta d’un ramo. Ma rimase in attesa. «Ho pensato allora che fosse una coincidenza, conoscerlo così,» continuò. «Così gliel’ho detto che lavoravamo insieme… che, insomma, conoscevo la persona coinvolta nell’incidente.»
Lei le sorrideva.
«Certo, una gran coincidenza,» disse.
«Ho pensato, siamo come dei fili. Uniti. Non credi?» Lei si era rinfilata il cappotto. «E come sta ora tua madre?»
«Scusami, ho lasciato una cosa in macchina.»
E fece per andarsene. Ma, sulla soglia, si girò un attimo indietro, ci ripensò e le chiese: «Lo sai che abbiamo preso un cane?»
Per strada, la mattina si era fatta alta, ma l’aria era polverosa, e pareva che facesse più freddo di quando non fosse appena uscita di casa. Camminava a passo svelto, come le piaceva fare, per una strada in salita, ma non si dirigeva verso il bar, né tantomeno verso la macchina. Sulla strada c’erano diversi negozi chiusi. Con i giornali sui vetri, le porte sbarrate, e cartelli di vendita e numeri di contatto. Si fermò a guardarne uno. Lì c’era stato quel bel negozio di borse e di valigie; e, ancora più avanti, chiuso anche quello, un vecchio bar dove sua madre andava sempre la mattina, dopo aver fatto la spesa. Che peccato, pensò; perché tutti chiusi? C’era la crisi. Le persone non andavano più a comprare certe cose, non se le potevano permettere e alcuni negozi d’un tempo, vendevano, compravano forse altre attività. Continuò a camminare. Li avrebbe voluti comprare lei, pensò, quegli spazi vuoti; erano così allettanti, ed era così bella quella posizione, ci vedeva già la vetrina e le porte di legno e le luci. Ma che cosa ci avrebbe fatto? Nulla; ché non le importava nulla, in realtà, di avere un negozio; si sarebbe annoiata all’inverosimile, lo sapeva. Le dispiaceva solo veder i posti condannati, chiusi, le cose dimenticate, avrebbe voluto metterle a posto; questo le dava soddisfazione.
Pensò poi a quando avrebbe lasciato il suo lavoro. A come avrebbero reagito i colleghi, che ormai era passato del tempo anche lì. Se si sarebbero dispiaciuti; se con qualcuno sarebbe rimasta amica. Ne dubitava, e ripensò alla conversazione di quella mattina; a quella cena e ai loro bicchieri di vino. Ai fiori, in cima alla strada di casa, a quella veglia che non sarebbe durata un giorno soltanto. Se ne vergognava, di esser così, sotto gli occhi di tutti; e, allo stesso tempo, di non poter dire niente, di non potersi difendere. E così non avrebbe detto niente a sua madre, di certo. Non sarebbe tornata al lavoro quella mattina. Le sarebbe piaciuto continuare a camminare. Le venne in mente un sentiero dove si andava a cercar castagne, un posto dove la portava suo padre da bambina; chissà, se era già stagione di castagne. Poi si fermò d’improvviso, in mezzo al marciapiede, fra le vetrine chiuse e i nuovi negozi, e la polvere del mattino che si diradava, si faceva un po’ più calda, più sorda nel
brusio del traffico; girò i tacchi e tornò verso la macchina. Mise in moto. Andava a prendere Biglia per la passeggiata.
Marco dice
Che bel racconto! Alla ricerca delle piccole cose belle che fanno stare meglio.
Nik dice
Racconto molto coinvolgente sulle complessità delle relazioni familiari. La scrittura è riflessiva e trasmette bene le emozioni della protagonista.
Mi è piaciuto molto 🙂